Il 15 ottobre 70 avanti Cristo nasceva Virgilio

Maestro di fratellanza

Joseph Stallaert, «La morte di Didone» (1872)
14 ottobre 2020

Che, fra le tante citazioni del proprio pensiero, di documenti ufficiali del magistero, di sant’Agostino e di san Tommaso e una famosa definizione ciceroniana della storia, Papa Francesco abbia voluto nella recente enciclica Fratelli tutti  richiamare anche un noto verso di Virgilio non deve stupire. Non solo, infatti, Virgilio, secondo la felice espressione di T.S. Eliot, è un universal classic , un “classico universale” in cui può riconoscersi qualunque uomo di qualunque nazione e di qualunque epoca; ma, nel caso specifico, è un classico che è riuscito nella maniera più profonda e più sublime possibile a esprimere quel senso di fratellanza, radicato nella consapevolezza dell’appartenenza di tutti gli uomini al genere umano come membra d’un unico corpo, che il Pontefice difende e propugna nella sua lettera.

Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt : il verso, nella sua pregnanza latina, è difficile da rendere in una lingua moderna. «La storia è lacrime, e l’umano soffrire commuove la mente», tradusse bellamente il Rostagni. Quel genitivo rerum , che può essere inteso come soggettivo (“la realtà piange”) o come oggettivo (“si piange la realtà”), quel mortalia  ch’esprime tutta la caducità e la fragilità del vivere umano; quella mens , ch’è insieme ragione commossa dal sentimento e animo turbato dalla sofferenza, ma ch’è anche parola etimologicamente connessa col verbo monere  ch’è a un tempo un “ammonire” e un “ricordare” all’uomo la sua mortalità, il suo esistere effimero e fugace, allontanando ogni tracotante illusione d’eternità inestinguibile e imperitura; quel tangere  ch’è insieme un “toccare” come un pungolo che risveglia bruscamente da un’illusione sognata e un “commuovere” per una condivisione profonda e istintiva delle miserie altrui: tutto ciò rende davvero arduo il lavoro d’un traduttore, costretto più che mai a scegliere un aspetto, trascurandone altri non meno significativi e luminosi.
È l’umanità alta e nobile d’un poeta nato nelle campagne del mantovano nel 70 avanti Cristo eppure per molti versi anticipatore del messaggio cristiano in tutto ciò ch’è messaggio intimamente e radicalmente umano, espressione di quell’humanitas  che non per nulla un Erasmo identificava con la Christianitas .

Tale lo sentirono già i cristiani del quarto secolo, quando la leggenda d’un Virgilio profeta di Cristo cominciò a diffondersi e trovò l’autorevole avallo non solo di Lattanzio, ma anche dei dotti della corte di Costantino. E non a caso Dante scelse la «dignitosa coscienza e netta» dell’«onore e lume» degli altri poeti come simbolo dell’umana ragione che lo guida nei primi due regni ultramondani e che, pur non «giovando a sé», aveva aiutato altri a trovare la luce per esser poeti e cristiani a un tempo.

È un’umanità che da un lato si radica in un animo naturalmente acuto, complesso e sensibile, dall’altra è alimentata da un percorso che nei secoli s’è dipanato nel pensiero filosofico, nelle visioni del mondo, nella graduale consapevolezza del fatto che non nobis solum nati sumus ; un abbracciare progressivo di coloro che mi sono “prossimi”, poi, come in un dilatarsi di cerchi concentrici nell’acqua, i miei concittadini, i compatrioti, e infine gli uomini tutti e persino la natura attorno a me, attraverso quell’“appropriazione”, quel-la lenta, ma continua “familiarizzazione” che gli stoici chiamarono oikèiosis . È da essa che nasce una caritas generis humani , una philanthropìa  universale: un “amore dell’umanità”, d’ogni e singolo uomo sentito come fratello, come cellula dello stesso organismo di cui io stesso faccio parte. Di questa philanthropìa  universale prima pietra fondante è la pietas : quella pietas  di cui è pius  Enea; quella pietas che non è la nostra “pietà”, o almeno non è solo quella. Essa consiste in un atteggiamento d’amorevole responsabilità nei confronti dei nostri congiunti, della divinità, della patria; nel riconoscere il ruolo in cui il Fato e una imperscrutabile volontà superiore ci ha posto; nel subordinare i nostri desideri, i nostri capricci, le nostre personali ed egoistiche esigenze a un ordine, a un kosmos  universale.

Così Enea è l’uomo del fatale andare, che sente un’heimarmene  sopra di lui, spesso anche sopra la volontà degli dèi, e sa che da essa discende il suo dovere; dovere verso un cómpito verso l’umanità e la storia che, nell’intrico complesso della vita, talora viene in contrasto non solo col nostro piacere e volere individuale, ma, cosa ben più difficile da intendere, con altri doveri contratti nei confronti di singole persone: è da questo difficile dilemma morale che discende tutto il dramma che, se da un lato è la tragedia di Didone ferita e distrutta, dall’altro è quello dell’animo d’Enea stesso, che obnixus curam sub corde premebat , «con uno sforzo estremo schiacciava l’angoscia sotto il suo cuore» nell’udire lo straziante appello della donna che l’amava d’un amore senza confini.

Una donna che, in questi tempi di muri fra uomo e uomo, c’insegna una virtù che sembra cadere nell’oblìo: una virtù che i greci chiamarono xenìa . Quando i troiani, vittime d’una tremenda tempesta scatenata da Eolo per volere di Giunone, giungono stremati sulle coste della Libia, i custodi della costa li arrestano, e li conducono prigionieri da Didone, regina di Cartagine. Lì, in una reggia nascente, Ilioneo, compagno d’Enea, prende la parola: «Che barbarie è questa?» domanda indignato, «Che razza d’uomini è quella che impedisce a naufraghi di trovare scampo su una spiaggia?». Ma l’umanissima Didone risponde: «Io ho sofferto molto: dunque ho imparato ad aiutare chi soffre»: Non ignara mali, miseris succurrere disco . Esprime così, in un sol verso, la sympàtheia , la capacità di sentire i dolori dell’altro come miei, di condividere le sofferenze altrui immedesimandomi nell’altro come se fosse me stesso. E offre ospitalità incondizionata: Urbem quam statuo vestra est , «la città che sto edificando è vostra»; tectis (…) succedite nostris , «entrate pure nelle nostre case». Sapeva bene, Virgilio, quale sia il dolore dell’esule, di colui che da eventi tragici è privato della terra dei suoi avi e costretto ad andare ramingo per lande straniere; e nessuno l’aveva mai espresso meglio di come lui aveva fatto nelle Bucoliche . Lui, che conosceva a fondo l’amore viscerale che può legare un uomo alla terra e che l’aveva cantato in quel gioiello di poesia didascalica che sono le Georgiche . Ma la philanthropìa  per Virgilio non ha confini: anche il più odiato dei nemici è solo un uomo indifeso da aiutare quando la tragedia l’ha travolto, perché il vincolo umano supera ogni distinzione: è il caso d’Achemenide, abbandonato da Ulisse sull’isola dei ciclopi, che chiede disperato e ottiene da Anchise protezione e accoglienza.

Virgilio c’insegna questo e molto altro. In Eurialo e Niso c’insegna cosa sia la vera amicizia spinta fino all’eroismo. In loro stessi, in Camilla, in Pallante c’insegna quale orrore sia la guerra, la tremenda furia uscita dagl’Inferi che immerge d’acerba morte i giovani «come un fiore tagliato dall’aratro / o come i papaveri che piegano il capo quando a volte la pioggia li grava».
Abbiamo proprio bisogno di più Virgilio. Lo comprendano coloro che governano l’Europa e il mondo.

di Luigi Miraglia