L’ultimo intervento pubblico di Liliana Segre nel centro toscano di Rondine dove vivono assieme giovani provenienti da Paesi in conflitto

La scelta coraggiosa del bene

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10 ottobre 2020

Sulla riva destra dell’Arno, a pochi passi dal ponte di Buriano – quello che Leonardo mise alle spalle della Monna Lisa – spunta il piccolo borgo di Rondine. Pare uscito da certi studi di guerra di Vegezio, col suo bel castello, le sue casupole semplici, sistemate all’erta come un gruppetto di soldati. Per lungo tempo, è stato avamposto di Firenze, teatro di due guerre sanguinose tra Fiorentini e Aretini. Una cittadella chiusa e fortificata, sbriciolata dal tempo e dall’incuria, almeno sino agli anni Sessanta del secolo scorso, quando un gruppo di volenterosi ne ha fatto un’utopia di pace. Oggi Rondine è una realtà di dialogo e integrazione, che accoglie persone provenienti da Paesi in conflitto.
Tutto nasce da un’idea forte e da un briciolo di follia: far convivere in contesto neutrale ragazzi che, nelle loro terre, sarebbero potenziali nemici. E così, le antiche stalle sono diventate ambienti di studio e di incontro per giovani provenienti dal Caucaso, dai Balcani, dalla Federazione Russa e dal Medio Oriente. Chi viaggia sulla linea ferroviaria direttissima Firenze–Roma vi lanci uno sguardo e, se crede, una preghiera.
Ieri mattina, la senatrice Liliana Segre ha deciso di affidare proprio ai ragazzi di Rondine–Cittadella della Pace, l’ultima testimonianza della sua tragedia a lieto fine. Ce n’erano moltissimi, di ragazzi, fisicamente e virtualmente riuniti ad ascoltare una delle pagine più buie della storia umana, nel racconto di una donna non comune, con un passato e un destino non comuni. Alcuni nel padiglione della Cittadella, accovacciati a terra, su un cuscino, all’indiana. Qualcuno è anche intervenuto: Phil, studente nigeriano della World House di Rondine, dando il benvenuto alla senatrice, ha detto: «Nel mio Paese c’è una grande guerra civile che ci divide, crea indifferenza e semina odio. Sono venuto a Rondine per non cedere all’odio. Ho scelto di trovarmi davanti al mio nemico e conoscerlo come persona, non senza difficoltà ma ogni giorno scegliamo questa fatica». Insieme a lui, Noam, israeliano: «Qui con i miei compagni, tutti quanti portatori di storie di dolore e violenza come te, abbiamo scelto di trasformare l’odio per generare speranza» e Maria Giovanna, studentessa sarda, che ha frequentato il Quarto Anno Liceale d’Eccellenza a Rondine: «Fiducia implica responsabilità e noi siamo pronti a difendere il tuo messaggio, grazie per la fiducia». Con loro, i massimi vertici della Repubblica italiana: il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, il presidente della Camera dei Deputati, Roberto Fico, un’ampia rappresentanza del Consiglio dei Ministri e di altre istituzioni. C’erano anche il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, e Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
Qualcuno dei vertici è intervenuto, con discorsi brevissimi, per lasciare il più ampio spazio alle parole della senatrice. Gli sguardi di tutti noi, fissi sopra le mascherine, verso il palco e l’enorme sfondo giallo, con la scritta «Grazie, Liliana!» e sei farfalle. Un giornalista ha chiesto al fondatore e presidente di Rondine, Franco Vaccari, come fosse riuscito a convincere la Segre a pronunciare la sua ultima testimonianza proprio lì. «Liliana non si convince. Liliana ha scelto di essere qui», la risposta.  
Liliana Segre era seduta dietro un tavolo, sul palco, con una giacca grigio candido, una maglietta nera e una lucente collana a grappolo. Sulle spalle, un’elegante stola blu con frange decorate e disegni floreali. Quando Alberti Casellati ha preso parola ha tenuto a precisare, tra le altre cose, che la Segre è «anche un modello di eleganza femminile». Ha ragione. Non è superfluo ricordarlo e nemmeno vezzoso: nessuno è elegante solo per l’abito che indossa. La Segre è elegante dell’eleganza del buonsenso, dell’equilibrio, dell’onestà. Di quell’onestà che sembra celare un’antica saggezza, e che pure esplode in idee modernissime: non nasconde nulla, se non ciò che è superfluo dire. Non ripara mai in frasi che negano e ammettono. E anche ieri mattina è stata così: garbata e morbida nella postura, lo sguardo dolce e un poco triste, la voce carezzevole, piacevolissima, di una gentilezza salda. Sì, è vero, ci ha ricordato una di quelle nonne eleganti, d’altri tempi, seduta davanti al focolare, intenta a raccontare una storia straordinaria, di dolore e rinascita, ai suoi nipoti, nei giorni di festa. E noi l’abbiamo ascoltata con la disposizione d’animo dei nipoti e ci siamo trattenuti, nei passaggi più feroci del suo racconto, dall’alzarci e dal farle una carezza.
Dopo aver salutato i vertici dello Stato, la senatrice ha concentrato lo sguardo sui ragazzi e non l’ha più mosso da loro. Ha spiegato lei stessa perché ha scelto proprio la Cittadella della Pace:  «Ho scelto questo luogo ricordandomi da sempre l’effetto che Rondine mi aveva fatto così tanti anni fa, questa che allora era un’utopia, un sogno di poche persone di buona volontà, ma che subito mi aveva preso come in un incantamento di quello che io avrei voluto realizzare nella vita». Poco dopo, è iniziato il suo racconto e chi era lì ad ascoltare v’è caduto dentro, attratto, come nel gorgo d’un imbuto, come in una tragedia greca. Nel terrore e nella pietà di quella vicenda ci siamo sentiti liberati, invece che avviliti, e rinati. Liliana Segre ci parlava della sua espulsione dalla scuola, e noi ci sentivamo grati d’esserci andati. Ci parlava della fuga sulle montagne dietro Varese, e noi sentivamo il suo spirito indomito e la sua voglia di libertà. Mentre ci raccontava dell’«uomo che obbediva agli ordini», il generale che li ha cacciati dalla frontiera svizzera, abbiamo pensato ai fratelli clandestini, rispediti alla povertà e all’iniquità della loro terra. Mentre affondava il ricordo nelle pieghe più melmose dell’animo umano, nell’indifferenza diffusa e colpevole di quel tempo e d’ogni tempo, ci ricordava il valore dell’amicizia e del coraggio: «E poi arriva l’amico, modesto, non un grande personaggio, quell’amico con la “A” maiuscola, che fuori dalla porta, dice: “La bambina viene con me”, mettendo a rischio la sua vita e quella della sua famiglia». E poi l’arresto, la prigionia a San Vittore, che ha chiamato «l’ultima casetta divisa col mio papà», lo spaesamento di un viaggio senza destinazione, in un carro bestiame stipato d’uomini, di pianti e di preghiere. L’arrivo ad Auschwitz, l’ultimo saluto col suo papà, il fuoco, il fumo del forno, che tutti additavano come un destino comune e a cui lei non voleva credere. Il mancato saluto a Janine, l’operaia schiava, che fu scartata dal tribunale infernale dei kapò e condannata a morte dopo essersi tranciata due falangi. Il più grande rimpianto della Segre è quello di non essersi voltata, di aver avuto paura di voltarsi e salutare per l’ultima volta la compagna che andava al gas. Anche questo, però, nel racconto della senatrice, non è rimasto un rimpianto. È diventato un invito a voltarsi verso il dolore della sorella e del fratello meno fortunati.
E poi, la marcia della morte, quella lunga camminata, «una gamba davanti all’altra, per la vita e la libertà» si è «arricchita» d’un aneddoto mai raccontato: l’immagine di una giovanissima Liliana, affamata, che insieme alle sue compagne, «altre monadi vaganti», si lancia sul cadavere d’un cavallo per trarne quel po’ di forza che serviva a proseguire il cammino. «Amavo molto i cavalli — ha ricordato — era orribile questa scena, era orribile vederci. Eravamo peggio noi del cavallo che era morto chissà perché. Eravamo morte anche noi. Purtroppo, la marcia non ci ha fatto mai trovare persone, solo cavalli morti e letamai. Dove erano gli uomini, quelli che possono guardarsi allo specchio e dire: ho una coscienza? Dov’erano?».
E poi è arrivata la speranza di una primavera, che si ridestava nei teneri prati e nei trifogli: «Ne presi uno e ne succhiai la clorofilla. Risentii la vita». E poi l’incontro con la pietà, quella pietà che pensava scomparsa dalla faccia della terra e che, invece, rivide e risentì nelle parole di un gruppo di giovani contadini: «Ci chiesero: chi siete? Siamo donne ebree. Siete donne?, ci chiesero con aria affranta. Poverine, fatevi forza, non morite, manca poco, è questione di giorni. La guerra sta finendo, arrivano gli americani da ovest, i russi da est. Non morite, non morite, fatevi coraggio. Non morimmo».
E poi è venuta «La scelta ». La Segre invita sempre tutti a fare «la scelta» coraggiosa del Bene. Lei la fece quando vide il comandante dell’ultimo campo, «un uomo crudele, che continuava a colpirci col nerbo di bue, e che improvvisamente cominciò ad aver paura di noi. Si spogliò, si mise in mutande, mandò via il cane e gettò a terra divisa e pistola. Ebbi l’impulso di raccoglierla e di sparare. Mi sembrava un giusto finale di quel periodo incredibile. Fu un attimo, importantissimo, decisivo nella mia vita, perché capii che mai avrei potuto uccidere qualcuno. Non ho raccolto la pistola e, da quel momento, sono diventata quella donna di libertà e di pace con cui ho convissuto fino a ora».

di Roberto Rosano