La fratellanza tra visione profetica e lavoro artigianale

Editoriale_direttore_21_x.jpg
21 ottobre 2020

Il sole sta dolcemente tramontando sul Campidoglio lasciando il campo ad una fredda brezzolina quando una giovane donna legge l’appello per la pace che conclude l’incontro di preghiera «Nessuno si salva da solo. Pace e fraternità » organizzato dalla Comunità di Sant’ Egidio nello spirito del grande evento di Assisi del 27 ottobre 1986: «Ai responsabili degli Stati diciamo: lavoriamo insieme ad una nuova architettura della pace», legge emozionata  la ragazza. Si capisce allora che quello che tutti i leader religiosi stanno realizzando, seduti tutti uno fianco all’altro, non è una bella sfilata, un evento finalizzato ad emozionare in una bella serata dell’ottobre romano, perché la pace non è un bel sentimento, ma è un lavoro. Faticoso, costante, paziente, un lavoro che necessita di creatività: l’architettura della pace deve essere “nuova”. La precedente evidentemente non basta più, deve essere riparata, aggiornata, reinventata. L’Europa può anche vincere il Nobel per la pace, come otto anni fa, ma è evidente che la spinta propulsiva nata alla fine della seconda guerra mondiale (proprio a Roma con i Trattati degli anni ’50) sembra essersi appannata, aver intrapreso una parabola discendente. Colpisce la parola “architettura”: fa pensare alla capacità di visione, di progetto, di sogno, la visione che ha spinto Giovanni Paolo ii  nel 1986 a dare il via a questa storia con un gesto che è stato, dice oggi Francesco, «un seme profetico che, passo dopo passo, grazie a Dio è maturato, con inediti incontri, azioni di pacificazione, nuovi pensieri di fratellanza». Quest’ultima, come la pace, non è solo una visione ma anch’essa un lavoro, un impegno fatto di fatica fisica, un lavoro di “artigianato”, una “architettura” che porta in sé l’immagine di un cantiere aperto, polveroso, dove ancora non è facile intravedere il progetto finale, a meno che non sei un architetto. Gesù nel vangelo è chiamato “il figlio del carpentiere” che traduce la parola greca tektòn , da cui archi-tetto, capo dei carpentieri. Dio è il vero architetto della pace, solo lui può realizzare una “nuova architettura della pace”. Ma allora in questo cantiere aperto (“incompiuto” si potrebbe dire usando un altro termine caro a Papa Francesco) qual è il compito che spetta agli uomini?  È un compito grande, di cui l’appello delinea alcuni aspetti  concreti e urgenti: «Uniamo le forze per la vita, la salute, l’educazione, la pace. È arrivato il momento di utilizzare le risorse impiegate per produrre armi sempre più distruttive, fautrici di morte, per scegliere la vita, curare l’umanità e la nostra casa comune. Non perdiamo tempo! Cominciamo da obiettivi raggiungibili: uniamo già oggi gli sforzi per contenere la diffusione del virus finché non avremo un vaccino che sia idoneo e accessibile a tutti. Questa pandemia ci sta ricordando che siamo sorelle e fratelli di sangue». Il sangue versato dalla pandemia di covid-19 ha superato il milioni di vittime in tutto il mondo; viene in mente il grido di cui parla Dio dialogando con Caino  che si mostra indifferente rispetto al destino del fratello: «Dov’è Abele, tuo fratello?». Egli rispose: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?». Riprese: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Genesi  4, 9-10) Nel momento di preghiera era stato citato Eli Wiesel: «Il contrario dell’amore non è l’odio ma l’indifferenza».

È questo lo spirito che ha fatto muovere e convergere a Roma tutti  i leader a dire “basta!” alla guerra e a pregare insieme per la pace, lo spirito della responsabilità che porta a dire con forza: «Nessuno può sentirsi chiamato fuori. Siamo tutti corresponsabili. Tutti abbiamo bisogno di perdonare e di essere perdonati. Le ingiustizie del mondo e della storia si sanano non con l’odio e la vendetta, ma con il dialogo e il perdono». Questo vuol dire essere architetti e artigiani della pace: far circolare una nuova moneta, creativa e generativa di vita, la moneta del dialogo e del perdono che se portata avanti in modo «leale, perseverante e coraggioso» diventa  «antidoto alla sfiducia, alle divisioni e alla violenza» e scioglie «le ragioni delle guerre, che distruggono il progetto di fratellanza inscritto nella vocazione della famiglia umana».
L’incontro si conclude e la brezzolina si è fatta ancora più fredda ma c’è lì, sul palco, un grande fuoco che splende e riscalda: è il candelabro della pace composto dalle candele accese da ciascuno dei protagonisti dell’evento. Un piccolo gesto, “artigianale”, ma che alla fine ha composto un’architettura che genera calore e luce, una luce di speranza che brilla nella bella serata romana e riscalda il cuore dei tanti presenti, che ordinatamente e fiduciosamente fanno ritorno alle loro case.

di Andrea Monda