Intervista al poeta cubano Víctor Rodríguez Núñez

L’umiltà della magia

Il poeta Víctor Rodríguez Núñes
14 ottobre 2020

La poesia di Víctor Rodríguez Núñez è indissolubilmente legata al realismo magico di Gabriel García Marquez. È un amore viscerale, quello rivolto all’autore di Cent’anni di solitudine , che ha portato Núñez a ricalcarne le orme non soltanto come poeta, ma anche come giornalista e studioso. Professore in Letterature ispaniche al Kenyon College in Ohio, vincitore nel 2015 del Premio Loewe con la silloge Despegue  (“Decollo”, Raffaelli 2017), Núñez — che il 4 ottobre, in collegamento dagli Stati Uniti con i poeti Luigi Colagreco e Loretto Rafanelli, ha ricevuto il Premio Città di Pescara Sinestetica — vede nella letteratura la possibilità di uno squarcio cognitivo nella conoscenza del reale: come per Góngora e Char, la natura e il mito, il quotidiano e la favola si intrecciano nel dominio di una scrittura minuscola (tratto stilistico condiviso, per altro, con il poeta tedesco Jan Wagner), segno di un’umiltà del verso che denota graficamente la crepuscolare presenza delle piccole cose: «Nell’alone dell’insonne marmotta/ che non perdona il fiore / nessun sogno giallo / le mani costernate / si guardano tra loro / la sporcizia la bellezza». In Il quaderno del topo muschiato  (a cura di Alberto Pellegatta, Milano, Taut Editori, 2020, pagine 106, euro 10) emerge proprio questa apertura al quotidiano trasfigurato, alla semplice schiettezza dell’essere.

Nel suo ultimo libro il topo muschiato appare, forse, come un auspicio di rigore etico.

L’ho scritto circa dieci anni fa, quando un membro della specie si è trasferito nella valle che si erge davanti alla finestra del mio studio. Non conoscevo questo animale e sono rimasto davvero sorpreso di vederlo uscire, nel mezzo di un inverno particolarmente rigido, tutti i giorni per trovare qualcosa da mangiare e portare un po’ di paglia nella sua tana. È stato per me un esempio di tenacia, industriosità, responsabilità, intelligenza. Guardavo il topo muschiato lavorare e lui mi guardava mentre sbrigavo le mie faccende, quindi abbiamo dialogato per mesi senza parole. In seguito, ho appreso che è uno dei simboli più potenti della poesia indigena nordamericana: non sono stato il primo a stabilire un colloquio con un questo animale endemico. La mia poesia per un paio di decenni si è basata sulla contemplazione della natura. Prima credevo che la contemplazione fosse passiva, ma poi ho capito con la pratica che è attiva, che interviene e cambia qualcosa. Insomma, la contraddizione tra contemplazione e azione è falsa.

Quali tratti della sua poesia sono ascrivibili al cosiddetto realismo magico?

In primo luogo, sono cresciuto in una realtà difficile da spiegare con una mentalità europea. Rinunciare all’eurocentrismo non è soltanto una posizione politica, ma una necessità per chi viene da un altro mondo. L’impatto che ha avuto la lettura di Gabriel García Márquez, specialmente Cent’anni di solitudine , è stato cruciale nella mia vita e nel mio lavoro. Sono uno scrittore essenzialmente per aver letto quel libro sin dall’adolescenza. Quindi, ciò che il realismo magico mi offre è la possibilità di operare una rappresentazione più completa e profonda del mio mondo. La magia è definita come tutto ciò che la ragione non può spiegare. Così, dove finisce la ragione — che è arrogante e non riconosce i propri limiti — inizia la magia. Preferisco l’umiltà della magia all’orgoglio della ragione. La funzione fondamentale della poesia, che appartiene alla sfera del magico, è rispondere alle avversità, risolvere i problemi che affrontiamo, a modo suo. Ed è per questo che è stata, è e sarà utile: perché aiuta a vivere.

Il termine «magia» sembra mostrare qui una connotazione metafisica. I suoi testi possiedono una tensione, per così dire, religiosa?

Riconosco di essere profondamente religioso, senza appartenere in maniera diretta a nessuna religione. Il carattere religioso della mia poesia nasce dalla consapevolezza dell’alterità, dalla ricerca di un’identificazione con il mondo e con le persone. Non voglio essere diverso da niente e da nessuno, voglio essere con tutti, e questa è la base della mia religiosità, il mio legame fondamentale con l’universo. Sento che non esisto soltanto come me stesso, ma sono uno strumento del mondo, una delle voci del mondo. Tale posizione fa sì che il mio lavoro poetico rompa i legami con il solipsismo, che ha implicazioni filosofiche ed etiche negative. La poesia, anche la cosiddetta poesia rivoluzionaria, è stata radicalmente solipsistica — penso a Pablo Neruda, per non andare oltre l’America Latina. Respingo l’io nerudiano, così come l’ipocrita “noi” di tanti poeti, e opto per un “io” che sa di non essere solo io ma anche un altro, l’io poetico proposto da César Vallejo. È quella che ho chiamato «poesia dialogica». Non voglio produrre una lirica che dia soltanto un messaggio: desidero che il lettore pensi con il proprio cervello e non con il mio, che sia attivo e partecipi quanto me alla creazione. Se potessi rendere il mio testo il testo di qualcun altro, mi sentirei pienamente realizzato come poeta.

Come valuta le conseguenze di questi mesi di emergenza?

La pandemia ha reso molto chiari i nostri limiti come specie animale sulla terra. Credevamo — per mano della dea ragione — di essere diversi dalla natura, il cosiddetto animale superiore, installato in cima alla piramide. Abbiamo infranto certe barriere che non ci limitavano ma ci proteggevano. Abbiamo devastato e sfruttato, abbiamo commesso orrori contro la natura e, con un meccanismo di azione e reazione, per difendere la sua integrità, essa ha reagito alle nostre angherie. Spariremo dalla faccia della terra se non pensiamo, se non agiamo in modo differente, se non cerchiamo un’alternativa al capitalismo e anche al socialismo. Ancora una volta abbiamo iniziato a parlare della contemplazione della natura e del dialogo con animali come il topo muschiato, e abbiamo finito per verificare il loro potenziale di trasformazione e partecipazione al la realtà.

di Alberto Fraccacreta