Ricordo dello scrittore israeliano da poco scomparso

L’implacabile pietà di Yehoshua Kenaz

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17 ottobre 2020

Nel gennaio 1989, quando «Nuovi Argomenti» di Moravia-Sciascia-Siciliano antologizzò dieci romanzi cardine della letteratura israeliana, i lettori italiani scoprirono per la prima volta Non temere e non sperare  di Yehoshua Kenaz. Nato in Palestina nel 1937 e a lungo redattore del quotidiano «Ha’aretz», Kenaz si è spento lo scorso 12 ottobre all’età di 83 anni per complicazioni legate al covid-19. Dopo gli studi di filosofia alla Hebrew University e di letteratura francese alla Sorbona, Kenaz si era affermato sia come traduttore sia come raffinato romanziere, aggiudicandosi premi prestigiosi quali il Bialik per ben due volte. Tra le sue opere vanno ricordate Voci di muto amore , Ripristinando antichi amori  (da cui Amos Gitai trasse il film Alila ), La grande donna dei sogni , Momento musicale , Appartamento con ingresso nel cortile  e Cantare in coro , tutte edite in Italia da La Giuntina, nonché il già citato capolavoro.

Formatosi su Flaubert, Stendhal e Simenon, Kenaz ha saputo infondere nelle proprie pagine lo stesso implacabile amore per il dettaglio. Gli ambienti che vi ricorrono sono condomini, case di riposo, scuole, caserme. È in questa quotidianità periferica — dove le vite trascorrono e si consumano addossate eppure lontanissime — che le individualità più estranee sono costrette a calarsi nel ring della socialità, spiandosi o sfiorandosi anche per pochi istanti. Personaggi che affascinano e respingono perché capaci al medesimo tempo di eroismi come di miserie inconfessabili. Ordinari fallimenti, pettegolezzi, adulteri, litigi e silenzi altrettanto insanabili sono il cielo plumbeo su cui lampeggiano azioni folli come non meno imprevedibili gesti di tenerezza. Carezze che sbocciano rare quanto sontuose, come fioriture nel deserto. Kenaz non annulla l’uomo nel suo male, riconosce semmai l’istante in cui la piena della sofferenza esonda in un’invocazione tumultuosa, dirompente. «Che Dio abbia pietà di te» rantola al proprio strangolatore la vecchia Rosa, cieca e pazza, eppure misteriosamente capace di riconoscere e chiamare per nome il proprio assassino. Che non si pentirà né cambierà vita, ma si sentirà rivolgere inattese parole di misericordia (La grande donna dei sogni ). «E a me chi mi perdona? Quando sarà finita? Quando ci sarà il perdono per me?» piange la signora Jolanda Moskovitch in Voci di muto amore ... e quel pianto liberatorio sarà la prima rugiada di felicità dopo molti anni, crepa salvifica nel guscio di un’esistenza ripiegata su se stessa. Davanti all’immenso cumulo di paranoia e mediocrità che appesantiscono ogni esistenza, l’intera produzione narrativa di Kenaz è stata percorsa dalla domanda: possiamo incontrare autentica pietà e vera tenerezza in questa vita? L’uomo, con il suo carico di colpe davanti alle quali occorre rifiutare di serrare gli occhi, le potrà mai meritare? Se la penna di Kenaz è affondata come un bisturi, come si ama dire, lo è stato per snidare i tumori più insidiosi, quelli innervati nelle pieghe dell’abitudine.

Anche quando lo scenario si faceva politicamente ingombrante, Kenaz ha resistito alla tentazione della facile retorica. Significativa a questo proposito è la struttura portante di Non temere e non sperare , che racconta le vicende di un gruppo di giovani reclute israeliane durante il servizio di leva obbligatorio. Siamo negli anni Cinquanta, la guerra arabo-israeliana è un ricordo vivido e il nuovo Stato ancora in corso di formazione. Il servizio militare è un laboratorio sociale dove confluiscono e si scontrano le barriere culturali degli europei della diaspora, degli arabi e dei sabra, cioè i nativi israeliani. Tutto questo rimane però come niente più che sfondo. In primo piano balza la tensione tra immagine ideale di se stessi e cruda presa d’atto della propria imperfezione quale processo di formazione individuale e della coscienza civile. Kenaz manifesta qui una prodigiosa capacità nel dare nome ai moti più intimi e imperscrutabili, alla maturazione di un odio o di un perdono, ai labili confini tra ammirazione e disprezzo, alla corrente alternata di egoismo e generosità, ai vincoli imposti dal tradimento e dall’amicizia, ai timidi germogli di bene nella giungla della complessità, all’implosione degli ideali, all’implacabile intreccio della grazia e del grottesco. Eppure nessun personaggio è ridotto a modello, negativo o positivo che sia. Ognuno è depositario di una verità ultima, per tutti c’è un rispetto che sfiora la sacralità, quasi che lo scrittore si levasse i calzari delle precomprensioni ideologiche prima di entrare — scalzo e timoroso — nel santuario della coscienza. La religiosità di queste pagine non è relegata ad affondi metafisici o alla descrizione delle pratiche rituali di alcuni personaggi, essa palpita semmai nell’abissale sorgività che inabita ogni persona. «Il mio cuore batteva con forza e continuai a immaginare l’afflusso del sangue che inondava le valvole (…); ma invece del fragore del sangue che s’infrange contro una parete vuota, che lotta per aprirsi un varco, udii una voce di sottile silenzio, nella quale forse sbocciano lentamente fiori rossi, tiepidi, umidi, che si aprono lentamente nelle oscure profondità del cuore». Nel cuore dell’uomo, ci ha raccontato Kenaz, albergano una follia e una pietà senza limiti, perché il dolore è capace di spezzare i più forti, mentre i deboli possono indurirsi in un odio invincibile. Eppure non è altrove da questi stessi cuori che può spirare la biblica «voce di sottile silenzio» (1 Re  19, 12). Nessuna esistenza può illudersi di sfuggire alla generosa pioggia della tragedia e dell’insensatezza. Eppure anche dalla notte più impenetrabile occhieggeranno le stelle, affacciate sulla nostra polvere: «Occhi puri ed eternamente giovani» che contemplano ogni cosa con infinito amore. E il loro sguardo non risparmierà nessuno.

di Paolo Pegoraro