Racconto. La parola dell’anno - Francesco e la narrazione antropologica

L’essenziale nella parola

Antonio Giaccarelli, «Priamo chiede ad Achille il corpo di Ettore» (1819-1825)
15 ottobre 2020

L’intuizione avuta dal Santo Padre di dedicare al tema della narrazione il suo messaggio per la 54a  Giornata mondiale delle comunicazioni sociali si va rivelando come una apertura di prospettiva ricca di potenzialità terapeutiche per l’anima di una umanità sempre più smarrita e alla ricerca di un suo ubi consistam .

La sollecitazione di Francesco giunge infatti in un’epoca drammaticamente confusa ma per questo anche particolarmente propizia a una sua ricezione profonda, per due ragioni fondamentali. Da una parte la particolare condizione dei nostri tempi, così assediati da tecnologie invasive per certi versi pericolosamente destrutturanti (l’eterno presente delle connessioni e dei messaggi), che ha per contrasto e conseguenza un ancor più acuito bisogno di significato e che rischia, oggi più che mai, se restasse inevaso, di continuare a risolversi sempre più in un individualismo autoreferenziale nichilista. E dall’altra la maturazione cui è giunta l’elaborazione dello stesso concetto di narrazione, già da un decennio protagonista del dibattito culturale, associato ma distinto rispetto a quello più minimalista di storytelling , sin dalla definizione originaria che ne diede Christian Salmon nel suo famoso testo del 2007.
In febbraio ci ha lasciato George Steiner, insigne studioso di letteratura, il quale ebbe modo di scrivere che Omero nei suoi poemi avrebbe colto l’umano più di Platone, una frase la cui interpretazione estesa alla analisi della struttura del pensiero narrativo può aprire scenari molto interessanti. Di fatto nel concetto di narrazione, che implica una trama, necessariamente itinerante tra un inizio e una fine, quindi specchio della nostra vita, potrebbe risiedere la possibilità di trovare l’essenziale dell’umano e quindi lo stesso suo significato, in risposta alle domande, eterne sue compagne, «Chi sono? Da dove vengo? Dove vado?».
Da questo punto di vista è estremamente suggestivo che entrambe le epiche omeriche terminino con la scoperta della paternità come se solo lì, in quella dimensione, l’essere umano incontri davvero se stesso; nell’Iliade  con il cortocircuito mentale di Achille che di fronte al nemico Priamo invocante la restituzione del corpo da lui martoriato di Ettore ha la visione di suo padre che lo sta aspettando invano, nell’Odissea  con il ritorno di Ulisse a Itaca e il saluto finale al padre Laerte: solo così  si ricongiunge definitivamente con il suo destino di «padre, re, marito e figlio» («riappropriatosi della sua identità in questo, e non altro, ordine» secondo lo psicoterapeuta Giuseppe Vadalà nel suo Nessuno ascolterà Ulisse? ).

Un punto di arrivo esplicito quello della paternità che gli eroi omerici condividono per altro con altre epopee come quella di Gilgamesh e di Enea, per limitarci ai racconti mitici e fondativi dei popoli mediterranei. Punto di arrivo messo in dubbio dall’avvento della modernità che tenterà di contestarlo formalmente e contenutisticamente ma in fondo senza riuscirci se alla fine i tre padri programmaticamente mancati, rappresentati da Don Chisciotte, Faust e Don Giovanni (i protagonisti dei tre libri ritenuti con Robinson Crusoe da Ian Watt i Miti dell’individualismo moderno ), giungono inevitabilmente all’ultimo bivio perdono/dannazione.

Dunque la nostra esperienza dell’umano, il nostro viaggio, per trovare compimento logico prevedrebbe necessariamente il passaggio narrativo-drammatico da figli a padri, vale a dire paradigmaticamente da oggetto della cura altrui a soggetti che si prendono cura del prossimo, in una presa di responsabilità nei confronti del mondo, antropologicamente fondata sulle esigenze del Dna, che ci permetta di uscire dal labirinto dell’io infantile (vedi ancora le avventure / peregrinazioni / giri a vuoto di Don Chisciotte, Faust e Don Giovanni con il loro tentativo di procrastinare all’infinito la soluzione del conflitto, padre - non padre, responsabilità o no, come del resto i protagonisti della stragrande maggioranza delle attuali serie televisive).

Un “discorso” questo della paternità come conquista definitiva della coscienza e quindi nostro principio di non contraddizione interiore. E qui viene in mente la lezione di Viktor Frankl, in merito al soggetto che necessita per la sua salute psichica di uno scopo / significato. Lo psichiatra e filosofo austriaco già constatava una crisi della psicologia perché autoprivatasi di un modello antropologico di riferimento. Emerge la necessità di un’idea di Lògos , forse già contenuta nella stessa definizione aristotelica (insuperata a detta pure di David Foster Wallace) di umano come animale dotato appunto di Lògos , da sempre tradotto in occidente con ragione, ma che nella profondità del suo significato potrebbe benissimo celare «discorso strutturato» e, quindi, narrazione.

Il Papa dunque con il suo messaggio ha avviato un processo di riflessione intorno alla narrazione che di fatto nobilita questo termine e invita a sottrarlo alla banalità giornalistica e ad affrancarlo dall’ambito ristretto della discussione accademica per proiettarlo molto più in là. Lo sviluppo e l’approfondimento di questo processo ora è responsabilità di ogni uomo di buona volontà che ha a cuore la tenuta di questa umanità ferita e colpita dalle attuali drammatiche condizioni in cui versa un mondo in cerca, appunto, di parole.

di Stefano Degli Abbati