La poesia di Louise Glück, premio Nobel per la letteratura 2020

Il regalo di una strana lucidità

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09 ottobre 2020

A quattro anni dalla controversa assegnazione del Nobel per la letteratura a Bob Dylan, l’Accademia di Svezia torna in terra nordamericana e riconosce a Louise Glück il premio più prestigioso per la sua produzione poetica, iniziata nel 1968 con la raccolta The First Born . Mentre il mondo si preparava a una rivoluzione epocale e mentre il menestrello del Minnesota cantava live  alla Carnegie Hall di New York in onore dello scomparso Woody Guthrie, Louise, venticinquenne, rivolgeva lo sguardo verso sé, verso i labirintici  sentieri della propria anima. Sentieri che, secondo il comunicato della commissione del Nobel, sono assurti a sentieri universali.

Inizialmente avvicinata dalla critica alla poesia confessionale di Sylvia Plath per la sua esplorazione della vita personale e interpersonale, la scrittura della Glück attingeva alle dolorose parole degli affetti spezzati e del loro riscontro “somatico”, sul corpo. Subito dopo il primo libro, la poetessa denunciò un “blocco dello scrittore” che per tre anni non le permise di trasformare le sue sensazioni in parole. Un blocco che si sciolse nel momento in cui iniziò a insegnare in un college del Vermont nel 1971. Meditare sulla funzione pedagogica della poesia e affrontarla in una situazione corale furono attività dall'immediato riscontro testuale.

La voce poetante non sarebbe più stata sola sulla pagina, ma avrebbe interagito con miti, leggende, apparizioni, divinità, religioni (di famiglia ebraica, Glück si è avvicinata ripetutamente al cristianesimo). Come accade in Ararat , del 1990, e ne Il giardino dell’iris selvatico  (traduzione e cura di Massimo Bacigalupo, Giano, 2003, in originale The Wild Iris , 1992) e ancor più in The Village Voice , del 2009.

La prima raccolta prende il nome dal monte Ararat, dove, secondo il libro della Genesi, si posò l'arca di Noè dopo il diluvio universale.

Sebbene intriso di perdite e amarezze, il libro guarda in qualche modo a un nuovo inizio che superi i disagi personali, i malintesi famigliari, i tradimenti, le delusioni, anche se una raccolta di poesie dal titolo dantesco di Vita Nova  non sarebbe arrivato prima del 1999. In effetti, un critico del New York Times definì Ararat «il libro di poesie più brutale e doloroso degli ultimi venticinque anni». Ma in uno dei componimenti la voce poetante avvisa: «non ascoltarmi, il mio cuore è stato infranto/ non vedo nulla in modo obiettivo./ L’anima è silenziosa./ Semmai parla/ parla per mezzo dei sogni». La lingua muore, secondo Glück, se «non c’è bisogno che sia pronunciata».

Una dichiarazione di poetica che dà una potenza assoluta al mezzo espressivo, sul quale Glück lavorerà di cesello poema dopo poema, raccolta dopo raccolta, verso un distillato lirico di grande capacità evocativa.

Nel giardino dell’iris selvatico la poetessa si aggira tra piante e fiori e le voci con cui interagisce sono svariate: l’effetto sorpresa è quello che Glück apprezza di più, «sentire sempre lo stesso suono di me stessa è una dannazione», ha dichiarato. Ed ecco che le voci si alternano, la giardiniera-poetessa, i fiori, Dio, il giardiniere per eccellenza, creatore del primo e indimenticato giardino dell’Eden, di cui tutti i giardini terrestri non sono altro che pallida imitazione, «quando la terra si appannò di petali». E Dio le risponde, «Ascolta il mio respiro, il tuo stesso respiro/ come le lucciole, ogni piccolo fiato/ una fiammata in cui appare il mondo».

Non c'è dubbio che il divino parla attraverso l'universo naturale e, a sua volta, attraverso le parole di Glück. Ma le voci sono multiple, non tanto nel nostro mondo attuale, quanto nella stratificata tradizione culturale cui la scrittrice volge lo sguardo e l’orecchio: l’unica sua altra raccolta di poesie tradotta in italiano è  Averno  (Dante & Descartes, 2019, traduzione di Massimo Bacigalupo). Averno è il nome di un lago vulcanico che si trova a pochi chilometri da Napoli, considerato anticamente come passaggio verso l’Ade. Persefone e la terra sono le protagoniste di queste poesie, di questo poema, potremmo dire, come se ogni componimento andasse verso un senso generale, un ennesimo dialogo tra l’io e il Dio, tra vivi e morti, tra presente e mito, tra amore e perdita, molti dualismi che rimangono tali e ai quali la poetessa non cerca facile soluzione.

Resta il segno del vissuto, anche se è proiettato verso la morte: «Un vento è venuto e passato, smontando la mente/ ha lasciato nella sua scia una strana lucidità./ Quanto sei privilegiata, ad aggrapparti ancora con passione/ a ciò che ami».

di Alessandro Clericuzio


Bucaneve


Sapete cos’ero, come vivevo? Sapete
che cos’è la disperazione; allora
l’inverno dovrebbe avere senso per voi


Non mi aspettavo di sopravvivere,
con la terra che mi schiacciava. Non
mi aspettavo
di svegliarmi, di sentire
nella terra umida il mio corpo
capace di rispondere di nuovo
ricordando
dopo tanto tempo come riaprirsi
nella luce fredda
della primavera agli albori

impaurito, sì, ma di nuovo fra voi
gridando sì rischiare la gioia
nel vento aspro del nuovo mondo