Tutto il pensiero di Dante ruota attorno al perno teologico della libertà dell’uomo

Il mistero del cuore

Domenico di Michelino, «La Divina Commedia illumina Firenze» (1465)
16 ottobre 2020

Maurizio Malaguti: una di quelle rare persone in cui uno sguardo e un respiro di cielo sembravano scendere imprevisti e gratuiti ad accompagnarti per un tratto nel cammino della vita. Filosofo amante davvero e dispensatore di sapienza, per i suoi allievi all’università di Bologna e per i tanti colleghi e amici sparsi per l’Italia e oltre. Il suo pacato e incessante quaerere  nasceva, era guidato e tendeva a quell’impalpabile e tersa luce che tutto clarifica da dentro e da sotto il dramma dell’umana vicenda, piovendo inesausta e traboccante dall’alto. Proprio di qui nasceva il suo perseverante connubio con la poesia del sommo Poeta, così corposa e così eterea, così esistenziale e così mistica da proporsi al contempo quale fenomenologia storica ed estasi escatologica. Per questo, a due anni dalla sua morte, mi è di gioia farne memoria prendendo spunto dalla splendida rilettura, che ha saputo offrire in molte — quasi tutte — le sue opere, d’un tema cruciale e irradiante della Divina Commedia: la libertà dell’uomo nel disegno d’amore della Trinità.  

Lo straordinario viaggio di Dante si conclude infatti, è vero, in Dio come a la meta verso cui dall’inizio è incamminato; ma proprio così raggiunge infine l’uomo, il segreto e la chiave del suo destino. Perché Dio e l’uomo, l’uomo e Dio, per Dante, non si possono dare se non insieme: l’uno con, per, nell’altro. Lo attesta in forma intensa e vibrante la chiusa del 33° Canto del Paradiso , che è il coronamento di tutte e tre le Cantiche, ma insieme il nuovo inizio del viaggio consegnato alla “vita nuova” di Dante e del lettore che con lui l’ha sin lì percorso. Dante, giunto all’empireo, contempla la nuova Gerusalemme, i cieli nuovi e la terra nuova in Dio, popolati d’angeli e beati. Ma infine, guidato da Bernardo di Chiaravalle, cui Beatrice lo consegna, e per l’intercessione di Maria, la Vergine Madre del Bell’Amore, fissa lo sguardo in Dio: e vi contempla la Trinità, mistero ineffabile e clarificante dell’amore, in cui «l’un da l’altro come iri da iri parea riflesso e ‘l terzo parea foco che quinci e quindi igualmente si spiri».
È l’abisso dell’amore divino contemplato quale è: sorgente, focolaio e patria dell’universo creato. Così lo descrive Malaguti: «La pienezza della Rivelazione Cristiana vede in Dio il dono totale: il Padre non dimora gelosamente nella sua ontologica primalità, ma si dona totalmente al Figlio che, in questo, è dunque Dio; ma il Figlio rende totalmente al Padre il dono, amandone perfettamente la perfetta volontà donante; nello scambio totale, senza riserve, l’infinito amore conosce un illimitato eterno trascendimento ed una infinita volontà di generazione: Spirito Santo» (Liberi per la Verità , Bologna 1980).
Qui Dante attonito s’arresta, perché subito s’offre agli occhi della sua vista interiore un altro prodigio al primo pari: la luce riflessa del Padre, il Verbo, il Figlio, «dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige». In Dio, nel Verbo, il Figlio, Dante ritrova se stesso, il volto dell’uomo. L’uomo nella sua “idea” eterna e nel suo storico ed escatologico destino. Due formidabili antinomie son così attestate nella loro indissolubile polarità e insieme sciolte senza separazione e senza confusione in quella Claritas  che solo infine è vera luce: «nella tua luce vedremo la luce» (Salmo   36).

La prima è quella per cui l’uomo è sé in Dio e in Dio soltanto, restando l’uomo uomo e Dio Dio; e la conseguente e seconda è quella per cui l’uomo è “pinto” del colore stesso di Dio nel suo Verbo/Figlio: eppure è sé, da Dio altro, non assorbito o dissolto in Lui, ma da Dio liberato nella sua impareggiabile e responsoriale identità.

Formidabile duplice antinomia in cui è racchiuso il significato del kerýgma  cristiano interprete performativo ed escatologico dell’avventura umana. Dante l’ha afferrata e ne ha fatto la chiave di volta della Commedia , che è per ciò stesso divina e umana, cristiana e laica, personale e universale. E, con ciò, ha riplasmato la tradizione classica e cristiana ricevuta dai secoli che l’hanno preceduto e insieme ha colto e interpretato il kairós  del suo secolo: lanciando una provocazione ai secoli a venire. Fors’anche al nostro.
«Com’è possibile che Dio sia tutto e al tempo stesso io e il mondo siamo pur tuttavia qualcosa?». Così si chiederà, quattro secoli dopo, Johann Wolfgang von Goethe. Certo, la cruciale domanda in sé reca il timbro della modernità. E tuttavia fotografa l’assillo più intimo e l’anelito più tormentato d’ogni uomo e d’ogni tempo. L’evo antico — per sciogliere l’enigma — propendeva a dire che questo  mondo è provvisorietà e transitorietà se non illusione e apparenza; quello moderno subirà invece, potente, il fascino d’un’altra risposta: per far posto al mondo e alla storia, per affermare i diritti dell’uomo, occorre inderogabilmente cancellare la presenza ingombrante e persino oppressiva di Dio.
L’intuizione cristiana dischiude di mezzo a queste perigliose Scilla e Cariddi una via di vertiginoso e rischioso ma liberante e affascinante equilibrio. Tra Dio e il mondo non si dà, né per principio si può dare, concorrenza o alternativa: perché il mondo da Dio è voluto gratuitamente e liberamente “per amore”. Non questo solo: ma — attesta Gesù, il Logos che è Dio Egli stesso e che carne è diventato (Giovanni   1, 1-2. 4) — il mondo e l’uomo son creati da Dio per aver parte gratuitamente e in libertà alla vita ch’è quella stessa del Creatore.

Gesù lo dice, lo è, lo vive e ne paga il dramma. Egli è “altro” da “il” Dio, il Padre, essendo Dio egli stesso, la Parola (cfr. Giovanni   1, 1), tant’è che si fa uomo e attraversa tutt’intera la possibile e insormontabile (con le sole forze umane) distanza da Dio, sino a morire in croce. Eppure, al tempo stesso, e proprio così, è il Figlio d’un Dio che è Abbà , così che può dir di sé: «Io e il Padre siamo uno» (Giovanni   10, 30), «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa» (Giovanni   3, 35). Gesù ci offre e si offre come verità ch’è via ed è vita: luce che rischiara la mente e fuoco che riscalda il cuore. Ma la strada per penetrare con l’intelligenza e afferrare con la libertà tale grazia a caro prezzo è lunga e accidentata: per ciascuno e per la storia della cultura e della società in cui si rifrangono, nel dramma del tempo, i raggi dell’intuizione evangelica di Dio e dell’uomo.

Di questa universale e affascinante vicenda, il medioevo cristiano di cui Dante è nella Commedia  straordinario testimone, rappresenta uno snodo decisivo. Basti dire che non a caso la sua Commedia  pone idealmente il sigillo su di un secolo, il xiii , che ha assistito al fiorire imprevisto, in seno alla cristianità, di due grandi eventi carismatici d’irradiazione del Vangelo: quelli che principiano da Francesco di Assisi e da Domenico di Guzman.
Il riconoscimento della provvidenziale qualità carismatica degli Ordini mendicanti, nella loro convergenza per il rinnovamento della Chiesa a servizio del mondo, è esplicitamente riconosciuta e descritta da Dante, che pur non lesina sferzate aspre e impietose ai seguaci indegni delle due appartenenze.

Nella sua Commedia , san Tommaso d’Aquino celebra san Francesco, nel canto ii  del Paradiso ; mentre nel canto xii , san Bonaventura da Bagnoregio celebra san Domenico. Senza dimenticare che Tommaso entra in scena già nel canto x : dov’è lui a presentare, nel cielo del Sole, coloro che in terra rifulsero per Sapienza. E pensare che egli sarà canonizzato solo nel 1323, mentre Dante tanto convintamente già lo colloca in Paradiso, tra gli spiriti sommi della Sapienza, da scegliere proprio lui come anfitrione della loro schiera.
V’è qualcosa di profondo che accomuna l’esperienza di Francesco d’Assisi, Tommaso d’Aquino e l’Alighieri.
Tutti e tre figgono lo sguardo della mente e l’ardore del cuore nel Dio rivelato da Gesù, il Verbo incarnato: la Trinità Santissima. Tutti e tre giungono, al culmine, a immergersi nel mistero di Dio incontrandovi il segreto del destino dell’uomo. Tutti e tre sperimentano, alla fine, la povertà del linguaggio e dell’esperienza dell’uomo, nella formidabile impresa di dire, comunicandolo, l’ineffabile così raggiunto perché dall’alto elargito. Insieme, tutti e tre, intuiscono che lì, in quel mistero, è la culla d’un nuovo inizio.

È come se Dante ci mostrasse il punto d’arrivo del cammino dell’uomo verso Dio raggiunto in Gesù — l’ingresso nel seno dell’Abbà , la contemplazione di Dio Trinità d’amore — come il punto di partenza del cammino verso l’umanità pienamente dispiegata dell’uomo. Egli — nota von Balthasar — ha «sperimentato la sintesi del medioevo» ma insieme ha intuito «qualcosa di qualitativamente nuovo, rivolto all’avvenire». E così si mostra tutto e sempre radicalmente laico, nel senso cristiano del vocabolo: e cioè membro vivo e attore responsabile del popolo (laós ) nuovo, costituito dall’alleanza nuova di Dio con gli uomini in Cristo Gesù.
Come s’evince dalle parole vergate nel Convivio : «Non torna a religione pur quelli che a Santo Benedetto, a Santo Augustino, a Santo Francesco e a Santo Domenico si fa d’abito e di vita simile, ma eziandio a buona e vera religione si può tornare in matrimonio stando, ché Dio no volse religioso di noi se non lo cuore» (iv ,  28).

Del resto, segno eloquente dei tempi nuovi evocati e promessi dalle esperienze di Francesco d’Assisi e Tommaso d’Aquino, è il fatto che Tommaso esalti, nel Paradiso  dantesco, Sigieri di Brabante, il filosofo contro cui, in vita, ha aspramente polemizzato; e che Bonaventura tessa la lode di Gioacchino da Fiore, la cui dottrina in vita ha rintuzzato. «Dante —scrive Giovanni Casoli — credeva con libero cuore e libera fantasia di poeta all’onestà filosofica “laica” di Sigieri come alla lungimiranza profetica dell’abate calabrese, che aveva preannunciato “duo viri spirituales” (Francesco e Domenico) a difesa e soccorso della Chiesa giacente in condizione critica».
A partire da questo kairós,  l’Alighieri concentra nella Commedia  in vigorosa sintesi, e dispiega a ventaglio dispiegato, una possente e caleidoscopica visione dell’uomo: dei suoi mille volti, delle sue imprevedibili vicende, dei suoi misteriosi destini.

La sua Commedia  è commedia dell’uomo: del suo tempo, di ogni tempo, del nostro tempo. Il tutto muovendo da un’intuizione che coglie nella libertà delle opzioni, pur intrinsecamente circoscritte e propiziate dalle circostanze e dalle passioni, il fulcro dell’esistenza nel suo prodursi storico e nel suo eterno perpetuarsi.
Ma — e questo è il punto che contraddistingue l’umanesimo dantesco — sono l’esperienza e la concezione di Dio propiziate dalla fede cristiana maturata lungo i secoli, e sbocciata a imprevista fioritura in Francesco d’Assisi e Tommaso d’Aquino, a colorare l’affresco d’intensa e sorprendente umanità dipinto nella Commedia . Senz’altro, il protagonista di essa è Dante, l’uomo, cioè, nella sincera e spasmodica ricerca della luce e del sapore definitivi del proprio destino. E accanto a lui via via conosce quali coprotagonisti coloro ch’egli incontra scendendo gli abissi dell’inferno, scalando le balze del purgatorio, ascendendo di cielo in cielo nel paradiso. Dramma dunque dell’uomo, senza dubbio, quello descritto nelle rime dantesche. Ma di un uomo ch’è raggiunto da Dio per primo nel bel mezzo del suo cercare. Il che non significa che il Divino venga sperimentato e raffigurato come presenza ingombrante o soffocante o persino castrante la giocosità inventiva e rischiosa della libertà. Tutt’al contrario.

Dio, per Dante, è il garante ultimo e insieme prossimo dell’umana libertà. Così Beatrice glielo illustra, nel Canto v  del Paradiso  (19-24): «Lo maggior don che Dio per sua larghezza / fesse creando, ed a la sua bontate / più conformato, e quel ch’è più apprezza, / fu della volontà la libertate; / di che le creature intelligenti, / e tutte e sole, fuoro e son dotate». Se, paradossalmente, Dio più non vi fosse o fosse cacciato ai margini dell’esistenza umana e cosmica — come tragicamente viene ad accadere nei gironi oscuri e penosi dell’inferno —, allora sì che la libertà dell’uomo girerebbe indefinitamente a vuoto, senza più direzione né bussola, senza più senso né bellezza. Il perno teologico attorno a cui ruota la gran macchina della Commedia  è dunque la libertà dell’uomo in quanto originata e garantita dalla libertà di Dio. Libertà, quella di Dio, che accende alla responsabilità la libertà dell’uomo e che, dunque, è il criterio ultimo di sua verità e giustizia. Ma che, prima di tutto ed essenzialmente, è: libertà dell’amore e nell’amore. Non è forse Dio quell’«amore che muove il sole e l’altre stelle» cui è consacrato l’ultimo verso della Commedia ? Proprio in ciò, nella confessione di fede che risponde stupita e grata all’evento del donarsi sino alla fine di Dio per l’uomo, ultimamente consiste lo specifico dell’esperienza e della concezione di Dio della fede cristiana come la descrive il Nuovo Testamento: «Dio è agápe , e chi dimora nell’agápe  dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1 Giovanni,  4, 16).

È questa un’intuizione di Dio, e della sua presenza al cosmo e alla storia, alla persona e alla società, che rovescia l’intuizione che Aristotele esprimeva dicendo che il sommo Dio, il motore immobile, tutto muove ma come oggetto di desiderio amoroso (eros), non già come libera e gratuita sorgente che su tutti e tutto effonde amore e solo amore (agape), per trovar ad esso corrispondenza nella libertà dell’amore che se ne fa eco. Dante non misconosce i meriti né sottovaluta gl’inestimabili apporti della civiltà classica al pensiero e alla città degli uomini. Tutt’altro. Ma, affascinato dall’ispirazione evangelica e ammaestrato dalla sapienza dei padri, dei dottori, dei mistici, dei santi, degli uomini e delle donne di fede e buona volontà, li immerge a nuovo nel fonte battesimale della grazia di Cristo. Dio si rivela — agli occhi suoi — come il punto incandescente e iridescente da cui scaturisce ogni vero, ogni bene, ogni bello: nel segno dell’amore.

Tanto che quando, infine, giunge a fissare gli occhi nella divina essenza, racconta: «Nel suo profondo vidi che s’interna, /    legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna:  / (...) / La forma universal di questo nodo / credo ch’i’ vidi, perché più di largo, / dicendo questo, mi sento ch’i’ godo» (Paradiso , xxxiii , 85-87; 91-93). Tutto quel che esiste, è esistito ed esisterà nel tempo è raccolto nella sua radice originaria, nella sua forma essenziale e nella sua meta ultima in Dio, quale libero frutto dell’amore ch’Egli è. Da Dio, per amore, è liberamente proiettato “fuori di sé” nel cosmo e nella storia, da dove a sua volta, per libera scelta dell’uomo, copula mundi  e “pastore dell’essere” creato, è chiamato a tornare, gravido di vita e di novità, in patria. È questo il divino, trinitario segreto della creazione: «Non per avere a sé di bene acquisto, /  ch’esser non può, ma perché suo splendore / potesse, rispondendo, dir “subsisto” / in sua eternità di tempo fore, / fuor d’ogni altro comprender, come i piacque, / s’aperse in nuovi amor l’etterno amore» (Paradiso , xxix , 13-18).
Certo, tra il principio e la fine v’è di mezzo enorme e financo tragico, il travaglio storico e la voragine cosmica dell’avventura umana: la lotta, il vizio, la violenza, la sconfitta, la perdizione, ma anche il perdono, la virtù, la pace, la bellezza, la vittoria sul male. E Dio —  giustizia e misericordia — mai si chiama fuori dal calvario tormentoso tracciato dalla storia dell’uomo che irrefutabilmente anela alla luce della risurrezione.
Dove sta dunque la chiave di volta di quest’indissolubile congiunzione del divino e dell’umano? Una congiunzione tanto forte che anche quando l’umano si vuol staccare dal divino e lo rigetta, anche allora in sé per sempre ne porta la ferita: sì che da essa sempre di nuovo ripullula il desiderio che è l’inestinguibile pungolo persino della sua eterna dannazione.

La chiave di volta Dante la intuisce appunto quand’ormai giunto alla meta fissa gli occhi nel Dio che Cristo ha rivelato: Padre, Figlio e Spirito Santo, l’Amante, l’Amato e il loro reciproco Amore, come scrive Agostino. È allora che, subito, contempla in uno — proprio di qui siamo partiti — la seconda Persona della Trinità Santissima, il Figlio, e «dentro da sé, del suo colore stesso / (…) pinta de la nostra effige». In Dio, nel Figlio del suo amore, è figurato il volto del Figlio di Dio fatto uomo affinché — lo insegnano i Padri della Chiesa — l’uomo a sua volta possa divenir realmente e definitivamente partecipe della vita di Dio in Dio.
Ciò che Dante contempla, figgendo la mente — immobile e attenta — in Dio, illuminato dalla grazia, in un excessus  mistico che in sé fonde il desiderio e la visione, son le due realtà che stanno al cuore della fede cristiana: Dio Trinità e l’Incarnazione. Che non sono esteriormente collocate l’una accanto all’altra in semplice contiguità, ma l’una dall’altra ricevono luce e significato. «Il volto (del Cristo, Figlio di Dio che si fa figlio dell’uomo) — scrive Malaguti — introduce al mistero del cuore, è la trasparenza verso la gloria dell’essere, è l’evento supremo della rivelazione. (…) è l’evento nel quale si manifesta il senso dell’essere che è amore» (La metafisica del volto. Una lettura di Dante , Bologna 1996).
In ciò Dante è pienamente evangelico, perfettamente tradizionale e inaspettatamente moderno. Che cosa dice, infatti, la Trinità? Dice che Dio, «l’alto lume», nella sua «profonda e chiara sussistenza», è Amore e nient’altro che questo; e, proprio per ciò, è abitato da reale alterità: il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo. Perché l’amore obbedisce a un imperativo che ne definisce la verità:

«È bene che l’altro sia!». Di più: io sono perché l’altro è e perché l’altro sia. Sì da poter infine esclamare in tutta verità: tu sei me e io sono te. Non parla Dante, con potente invenzione linguistica, di «intuarsi» e «inmiarsi», di farmi te e di farti me? (cfr. Paradiso , ix , 81).
Vivere l’altro essendo sé, vivere sé essendo l’altro: è il segreto e il miracolo dell’amore. Ora, se Dio è luce sfolgorante e fuoco inestinguibile di questo amore, se è Trinità — come professa la fede cristiana —, allora si può intuire che egli desideri vivere questa stessa dedizione e reciprocità reciprocante e infinita che è in Sé anche in rapporto a quell’altro da sé nel quale, creando, Lui, «l’etterno amore», «s’aperse in nuovi amor».

di Piero Coda