Arte e Fede - L’architetto Mario Botta e lo scultore Giuliano Vangi illustrano il lavoro svolto nel cantiere di un grande santuario vicino Seoul

Il cielo sopra Namyang

La vetrata con Annunciazione e Visitazione
13 ottobre 2020

Da luogo di morte e martirio a oasi di bellezza in cui la comunità ritrova le proprie radici spirituali


Due maestri per una grande chiesa. Gli ingredienti ci sono tutti, eppure non si tratta del Rinascimento italiano. Se ne avverte l’eco, certamente, specie sullo sfondo di un territorio marchigiano intriso di storia, dove tutto è compostezza e misura. In una piovosa mattinata, si radunano alla spicciolata qualche decina di persone nel luminoso atelier di Giuliano Vangi, a Pesaro. A convocare, più dello stesso artista, sembra essere l’energia che sprigiona da un imponente Cristo ligneo: chiaro, giovane, dipinto nei particolari vividi e realistici del corpo e del viso.

Si tratta di un recente traguardo dell’ottantottenne scultore, realizzato per la grande chiesa di Namyang, nei pressi di Seoul, progettata dall’architetto Mario Botta e in fase di ultimazione. Se l’arte contemporanea ha espresso in molti modi il frantumarsi della figura umana, c’è come una delicata, intima resistenza nel gesto di chi ha trascorso i mesi di lockdown modellando un crocifisso risorto che attraverso il vigore della forma pare cerchi l’incontro. L’atmosfera è familiare e accogliente.

Architetto e scultore sorprendono gli ospiti con l’entusiasmo di chi è quasi sorpreso dell’opera delle proprie mani, eccedente il progetto e le aspettative. Attorno, lo spazio racconta studi, esperimenti, tentativi: una ricerca inquieta e fecondissima, che si è fatta disegno, terracotta, stampa in 3D, modello. E soprattutto dialogo. Della grande tradizione riverbera qui il rapporto di ogni cosa col suo contesto, di ogni contributo con quello altrui: reciprocità che Botta e Vangi non nascondono, descrivendo l’uno ciò che ammira e cerca nel talento dell’altro, in un gioco che nulla ha del celebrarsi a vicenda dei convenevoli umani, ma è tensione viva a un di più in cui il singolo ha bisogno di collocarsi.

In effetti, questa dinamica di apertura, in cui ognuno parla più dell’altro che di sé, spinge il pensiero quasi alla fine del mondo, nella lontanissima Corea dove ha preso forma, prima della chiesa di mura, una comunità cristiana giovane e vitale. L’architetto, che più l’ha frequentata, avendone per primo accolto la committenza, ne parla ogni volta con commozione, avvertendo in quell’angolo d’Oriente una domanda collettiva di intensità superiore a qualsiasi esperienza del sacro precedente.

Il terreno scelto per la costruzione del nuovo santuario della Vergine del Rosario a Namyang fa parte di una vasta zona verde collinare a sud della città dove, nei decenni scorsi, padre Lee ha via via consolidato una sorta di parco urbano creando viali, soste e percorsi processionali per la meditazione e la preghiera. Si tratta di una vallata e di un bosco che furono luoghi di martirio e in cui la comunità avverte fisicamente le proprie radici spirituali.

Spiega Mario Botta: «Sono trascorsi ormai quasi dieci anni dai primi contatti per il progetto, che è ora costruito e sta per esser completato con gli arredi interni e la sistemazione esterna. È un progetto di grande impegno etico, civile e religioso che vuole ridare una nuova centralità all’essere umano e ai suoi valori forti di spiritualità e partecipazione sociale: proprio in questa ottica padre Lee parla di un Parco della Pace».

Si può dire che una Chiesa giovane e vitale abbia cercato nel canone occidentale, rappresentato dai due maestri, un ancoramento ai primi due millenni cristiani. Vangi è come se immettesse plasticamente in quest’impresa intercontinentale, la misura umana cui nei secoli il cristianesimo ci ha educato: lo fa mentre, con l’espressione artistica, dell’Occidente vacillano la visione e le narrazioni.

Una crisi ben presente all’architetto: «Ciò che mi ha colpito in questa avventura, affrontata da un prete solitario, è la fede illimitata che ogni giorno testimonia, nel bel mezzo della società dei consumi — coreana quanto occidentale — e di fronte alle accelerazioni indotte dallo sviluppo tecnologico: il tentativo di proporre il meglio, il buono, il bello e il giusto da condividere con altri “compagni di viaggio” dentro le contraddizioni del vivere proprie della nostra generazione. Ma anche la determinazione di non agire in maniera astratta o ideale, bensì concretamente, attraverso la trasformazione fisica di un territorio che è luogo della memoria di un eccidio di cristiani perpetrato ai tempi della dinastia Joseon, verso la metà dell’Ottocento».

La grande chiesa, da quasi duemila posti, sorge come luogo di accoglienza e di invito per i fedeli, simbolo di unione tra città e natura circostante. L’edificio, adagiato tra i due lati boschivi della vallata, si distingue non solo per il rosso dei mattoni, in contrasto con la vegetazione circostante, ma anche per la presenza delle due torri absidali, che superano i quaranta metri d’altezza, creando quella che Botta definisce una “diga”, che chiude la valle e stabilisce uno stretto e continuo dialogo tra la città, la chiesa e il paesaggio.

Sono proprio le due torri, che in alto si ridisegnano come lucernari per inondare le pareti che modellano il presbiterio, ad aver richiesto il contributo di Giuliano Vangi. Se infatti nell’economia urbana le due absidi diventano un’imponente presenza di richiamo, all’interno rappresentano il punto di convergenza degli sguardi e di connessione tra terra e cielo.

Il Cristo — spiega Vangi, indicando i rendering  e il modello — sarà sospeso in alto, sei metri sopra l’altare, sostenuto da una sorta di doppia croce, strutturata nel rapporto tra pieno e vuoto, buio e luce, attraverso il gioco tra le parti in carbonio e gli spazi da cui liberamente filtrerà il sole: morte e risurrezione, indisgiungibili nell’opera d’arte, come nei Vangeli e nella storia della comunità. La committenza si è tuttavia spinta oltre, chiedendo un di più di iconografia che oggi metterebbe in crisi qualsiasi progettista. Nasce così l’espansione dell’intervento a quella che costituisce forse la parte più originale del contributo di Vangi, senza precedenti nel suo percorso, sia dal punto di vista artistico, sia da quello tecnico: quaranta metri di disegni, trasferiti su vetro con tecnica serigrafica grazie alla professionalità del miglior artigianato marchigiano, quello che dall’umanesimo ha ereditato un saper fare che è sempre pensare. L’ultima cena, visibile da davanti e da dietro grazie alla cura che l’artista ha riservato ai dettagli, verrà sospesa nell’abside destro ed evocando la storia dell’arte italiana mette, l’una a fianco dell’altra, figure di apostoli dai tratti coreani ed europei, volti di persone reali, alcune delle quali protagoniste del progetto. Una mensa travagliata dall’annuncio del tradimento, in cui a chiedersi «Sono forse io?» si fondono le figure della tradizione e quelle del presente, strette attorno a un Cristo splendido e umano, dallo sguardo che pare fissare l’invisibile.

A sinistra, invece, un trionfo femminile, con la grande vetrata dedicata ad annunciazione e incontro tra Maria ed Elisabetta. Anche qui i tratti sono popolari; tutto è insieme citazione e novità.

La trasparenza — che Vangi e Botta sottolineano con insistenza — lascia intendere quanto importante sarà il dialogo tra espressione artistica e architettura, disegno e volumi, in una vera e propria festa della luce. In questo spazio sacro, infatti, il gioco del sole, del cielo, delle ore e delle stagioni sarà protagonista, come nel romanico: le grandi icone traslucide permetteranno di sentire il rosso del mattone anche attraverso le minuziose serigrafie. Se possibile, in questo senso, la novità della riproduzione a doppio fronte su vetro aumenta oltre ogni attesa la forza del disegno, che acquisisce movimento e volume.

Commenta Vangi: «Non amo parlare del mio lavoro. Però ammetto che la parte absidale era difficile anche immaginarla. Ma oggi vedo che è meglio di quello che pensavo. Studiata, pensata, misurata. È un’architettura a sé stante. Come nel medioevo lo scrittore, l’artista, lo scultore, diventano un tutt’uno. Parte loro stessi dell’architettura».

L’opera dei due artisti dà vita, insomma, a un nuovo genere letterario che risponde alla vita della comunità ecclesiale. Un testo non scritto a parole, dove artigianato e architettura, disegno e scultura, sacra scrittura e liturgia diventano generatori di vita e al contempo soddisfano la necessità umana di silenzio, meditazione, sacralità. Sottolinea Botta: «Lo spazio sacro ci dà la possibilità di interpretare, ritrovare noi stessi e porre interrogativi sul nostro rapporto e sulla nostra condizione col sacro». E parlando di Corea, col pensiero è a Roma: descrive il Pantheon, là dove è chiaro sin dall’inizio che «lo spazio possiede una sua verità, che la luce fa vivere, entrando anche da un semplice foro, attraverso il quale tutto dall’alto prende forma, colore, in modo sempre diverso, nello scorrere del tempo».

di Sergio Massironi