Nobel per la Fisica a tre scienziati che studiano i buchi neri

Esperti nel descrivere l’invisibile

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07 ottobre 2020

A Stoccolma quest’anno «hanno tenuto banco i buchi neri»: con questa battuta, Roberto Battiston — già presidente dell’Agenzia spaziale italiana, rappresentante del Parlamento Europeo presso l’Autorità europea responsabile del progetto Galileo, Gps e tutti gli altri progetti internazionali — commenta a caldo le notizie provenienti dall’Academy sull’assegnazione dei Nobel.

La scelta è infatti ricaduta per metà su sir Roger Penrose, cosmologo inglese a lungo docente a Oxford, e, per l’altra metà, sul tedesco Reinhard Genzel e sulla professoressa statunitense Andrea Ghez, responsabile dei più recenti studi su questi straordinari oggetti dell’universo presso l’università della California. La loro esistenza era già stata predetta dalla teoria della relatività generale di Einstein, tuttavia, solo dopo molto e con lo sforzo congiunto di fisici teorici e osservativi, si era giunti a rivelarli.

Studioso di buchi neri e cosmologia, di geometria e fisiologia (cosa che ha contribuito alla notorietà del fisico tra i colleghi scienziati) Penrose è tra le menti più eclettiche del mondo accademico internazionale, giunto addirittura a modellare le connessioni neurologiche caratteristiche della mente umana sulle basi della meccanica quantistica. Collaboratore dei maggiori fisici teorici del secolo scorso, in particolare di Stephen Hawking, contribuì a sviluppare la teoria dei buchi neri fino ad includere il momento del Big Bang.

«La scelta premia la sua analisi matematica che ha permesso di affrontare e risolvere numerose questioni collegate alla singolarità presente nelle equazioni di Einstein e associabile al buco nero» spiega Battiston. Penrose riuscì a dimostrare che il buco nero occupa un volume finito: un volume dal quale non può uscire alcuna informazione e che, pertanto, scherma, a tutti gli effetti, la presenza di una singolarità al suo interno.

«Determinarne sperimentalmente l’esistenza non è stato semplice — aggiunge Battiston — perché l’universo si può osservare solo per le sue parti luminose, ovvero le stelle: i buchi neri sono, per definizione, piccoli ed invisibili. Tuttavia, esercitano una straordinaria forza gravitazionale, come nessun altro corpo celeste può fare».

Proprio grazie a tale capacità, le stelle nelle loro immediate vicinanze vengono smembrate e assorbite in tempi brevi, mentre quelle più lontane si trovano a percorrere particolari orbite, interpretabili solo con la presenza di masse attrattive enormi.

Ed è proprio tramite l’osservazione dei movimenti delle stelle nelle vicinanze del centro galattico che è stato possibile, grazie ad anni di accurate analisi, convincersi della presenza di una massa oscura, a 26000 anni luce dalla Terra, nella costellazione del Sagittario, centinaia di milioni di volte maggiore rispetto a quella del Sole: «L’unico oggetto che potesse motivare questo comportamento è un buco nero supermassiccio attorno a cui ruotasse l’intera galassia. Oggi sappiamo che, al centro di ogni galassia, vi sia almeno un buco nero che la tiene assieme, ma, negli anni Novanta, Genzel e Ghez hanno saputo sviluppare calcoli e osservazioni astronomiche estremamente sofisticate per risalire a cosa si nascondesse dietro l’accumulo di stelle che circonda il centro galattico» ricorda Battiston.

Nonostante il nome in italiano suoni maschile, Andrea Ghez è la quarta donna a ricevere il premio Nobel per la fisica, due anni dopo Donna Strickland, sessant’anni dopo Maria Goeppert-Mayer (1963) e  più di un secolo dopo il doppio Nobel di Marie Curie (1903, 1911), su un totale di 215 premi assegnati. Una sottolineatura doverosa: un Nobel doppiamente meritato, perché il gap di genere è profondo anche nella storia del prestigioso premio.

di Silvia Camisasca