L’odissea di un ragazzo gambiano ospite di Casa Scalabrini 634

È finita a Roma la lunga corsa di Mamudou verso la libertà

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08 ottobre 2020

Mamudou si mise a correre. Glielo consigliò suo zio non appena videro che un gruppo di uomini armati fece irruzione nella panetteria in cui stavano lavorando. In quell’istante la vita di entrambi cambiò per sempre. Il giovane viveva in Libia ospite del fratello della madre che gli stava dando un aiuto dopo che, allora diciassettenne, abbandonò il Gambia a causa di un dissidio con il padre. Di quell’incursione ricorda bene il rumore degli spari. Poi arrivarono la prigionia, il viaggio forzato in mare, l’approdo in Italia nel 2016 e il peregrinare alla ricerca di una nuova dignità. «Oggi sto meglio, le persone intorno a me sorridono e io sto bene con loro. Prima avevo solo preoccupazioni», racconta a «L’Osservatore Romano». Da un anno vive a Casa Scalabrini 634, il programma dell’Agenzia scalabriniana per la cooperazione allo sviluppo (Ascs) che a Roma, in via Casilina 634, da cinque anni ospita migranti e rifugiati provenienti da ogni parte del mondo.

Prima della pandemia la vita di Mamudou era scandita da ritmi ben definiti: sveglia di mattina, lavoro fino al tardo pomeriggio, rientro a casa, cena, momenti di socialità e riposo nella propria stanza. «Dopo aver seguito un corso di formazione per camerieri — ci dice — avevo trovato lavoro per otto mesi come facchino e aiuto cuoco in un albergo che oggi ha chiuso. A causa del coronavirus ho perso il mio lavoro e ora mi stanno aiutando a trovare una nuova sistemazione». A Casa Scalabrini 634 sono una trentina gli ospiti e tutti seguivano un programma di semiautonomia. Questo significa che lavoravano, facevano la spesa, cucinavano e potevano seguire corsi di informatica, italiano, scuola guida, inglese e sartoria. «Ora l’attività di ricerca del lavoro che facciamo con i ragazzi si è intensificata», spiega la coordinatrice della struttura, Rita Urbano. Il problema è che «alcune persone lavoravano in pizzerie, alberghi e ristoranti che non hanno più riaperto o che hanno tenuto solo una parte del personale».

Per Mamudou la pandemia è l’ennesima difficoltà da affrontare. Non certo la più ardua, come insegna la storia della sua vita. Tutto cominciò cinque anni fa nella costa occidentale dell’Africa subsahariana. «Quando iniziarono i problemi con mio padre, mia madre mi mandò in Libia da mio zio», racconta Mamudou che in Gambia ha lasciato parenti e amici. A quel punto il ragazzo è partito da solo per un viaggio lungo e pericoloso che lo ha portato prima in Senegal, poi in Mali, Burkina Faso e infine in Niger, dove ha attraversato la frontiera. Questa è una storia diversa da quelle di tanti giovani gambiani che scappano e cercano di raggiungere il mar Mediterraneo, finendo spesso imprigionati in condizioni disumane in Libia. Ciò che, però, li accomuna è la povertà e la disoccupazione che attanagliano il loro Paese di origine. Una situazione che la Repubblica gambiana eredita dalla dittatura ultraventennale di Yahya Jammeh, allontanato pacificamente dal potere durante le elezioni del 2016 dopo la vittoria di una coalizione democratica guidata da Adama Barrow. Oggi, nonostante le tante riforme, il processo di transizione politica non è ancora solido. Una volta arrivato in Libia Mamudou ha iniziato a lavorare in un panificio insieme a suo zio. «Una notte siamo stati attaccati. Quando sono entrati siamo scappati», ricorda. In quel momento «io ho preso una strada e lui un’altra. Poi ho sentito degli spari. Non so chi abbiano colpito. Dopo mi hanno catturato, minacciandomi con le armi. Mi hanno portato in un carcere dove sono stato un mese». Come spesso accade nel Paese la banda criminale lo aveva rapito per ottenere un riscatto dai suoi familiari: «Mi chiedevano di chiamare la mia famiglia ma non sapevo chi sentire. Ho provato a chiamare mio zio, ma aveva il cellulare spento. Allora ho telefonato al suo capo algerino. Lui ha parlato con i rapitori e dopo due ore è arrivato e mi ha portato via dalla prigione». Nessuno sapeva più che fine avesse fatto lo zio di Mamudou. «In quel momento ho pianto», mi confida, «ero venuto in Libia perché c’era lui, ma l’avevo perso». Anche il proprietario della panetteria che lo aveva salvato aveva deciso di tornare in Algeria. Il mondo gli era crollato addosso: non poteva tornare in Gambia, ma era troppo pericoloso restare a vivere da solo in un Paese in guerra. Al diciassettenne non restò che chiamare un numero di telefono fornitogli dall’amico di suo zio: era una persona in contatto con gli scafisti libici che lo avrebbero portato in Italia. «Il mio destino non era questo. Ci ho pensato tanto. Poi mi sono imbarcato. Non avevo altra scelta», spiega. Mamudou è sbarcato in Sicilia nel settembre 2016. Viene portato nel centro di prima accoglienza dell’ex caserma Gasparo, a Messina, dove è rimasto due mesi. Poi ha vissuto un anno in una comunità per minori stranieri non accompagnati (Misna) dove ha iniziato lo studio della lingua italiana e ha richiesto la protezione internazionale. Una volta maggiorenne ha atteso l’esito della domanda in un centro della Croce Rossa e poi nel Centro accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Mineo, a Catania. Ottenuto il permesso di soggiorno ha fatto domanda per entrare nel Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar-Siproimi) e si è messo in viaggio per Roma. Mamudou è arrivato nella capitale nell’agosto 2018. All’inizio ha vissuto in una casa abbandonata nel quartiere Rebibbia insieme ad altri ragazzi. Ogni giorno il suo unico obiettivo era arrivare all’Ufficio immigrazione per chiedere un lavoro e una sistemazione. Gli è stata trovata negli ex Sprar di Tivoli e di Laurentina. Per un anno ha ricevuto l’aiuto della Caritas e del Centro Astalli, finché suor Maria José Rey-Merodio lo ha indirizzato a Casa Scalabrini 634. Inaugurata nel giugno 2015, nella struttura hanno celebrato i cinque anni di attività con una festa inconsueta celebrata via internet. L’obiettivo degli scalabriniani è quello di dare piena autonomia agli ospiti e «creare una comunità tra i volontari e i ragazzi della casa», spiega Rita Urbano, assistente sociale. Per questo si organizzano cene, partite di calcio e varie attività a cui partecipano anche persone esterne alla casa. Questo modello di integrazione consiste in una «restituzione al territorio attraverso la convivenza interculturale religiosa», afferma la coordinatrice. Significa che c’è un rapporto intimo con l’ambiente circostante: i ragazzi comunicano attraverso la radio, fanno le pulizie nei quartieri di Torpignattara e Centocelle, c’è un programma di alternanza scuola lavoro con il liceo Kant, esistono collaborazioni con l’Ecomuseo Casilino e con i volontari di Komen Italia per la lotta ai tumori del seno. Con la pandemia per la prima volta è stata attivata una distribuzione di alimenti, mentre lo sportello informativo ha offerto assistenza per la sanatoria di colf, badanti e lavoratori agricoli. Così, in questi cinque anni, Casa Scalabrini 634 è diventata un  punto di riferimento per il quartiere. Come per Mamudou.

di Giordano Contu