Il programma missionario di padre Juliawan nuovo provinciale della Compagnia di Gesù in Indonesia

Con lo spirito di Francesco Saverio

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03 ottobre 2020

Il modello è sempre lui, il primo gesuita arrivato nelle isole indonesiane Molucche, che sarebbe diventato anche il più famoso: Francesco Saverio, sbarcato a Goa, in India, nel 1542, proseguì per Malacca nel 1545 e infine raggiunse il porto di Ambon, oggi capoluogo delle Molucche, il 14 febbraio 1546. Lì iniziò a sostenere la piccola comunità cattolica che era stata fondata da commercianti e sacerdoti portoghesi, cominciando così la missione gesuita nell’Indonesia orientale.

Padre Benedictus Hari Juliawan, che ha appena iniziato la sua missione come provinciale della Compagnia di Gesù in Indonesia, ha ben presente la storia e l’opera del santo missionario spagnolo, pioniere della diffusione del cristianesimo in Asia. A causa della pandemia di covid-19, padre Benny, come lo chiamano amichevolmente i confratelli, ha iniziato il suo servizio dopo un forum provinciale che non si è tenuto “in presenza” ma online, mettendo in rete i religiosi sparsi nell’arcipelago delle 18.000 isole, steso su un’area che — per offrire una comparazione — è maggiore della distanza tra Lisbona e Atene. Oltre trecento gesuiti dispersi in varie parti dell’Indonesia hanno partecipato all’assemblea virtuale seguendo l’insediamento ufficiale di padre Benny in una celebrazione eucaristica trasmessa online.

Il “nuovo corso” dei religiosi in Indonesia inizia, dunque, in concomitanza con “il tempo della pandemia” che, ha rimarcato il provinciale, ha bisogno di «persone oranti e interiormente libere» che, con la grazia di Cristo, «possano avviare i cambiamenti con spirito di obbedienza e generosità». Un primo segno tangibile del nuovo modo di affrontare il futuro è la moratoria emessa da padre Juliawan sulla costruzione di nuovi edifici in tutte le opere apostoliche della provincia. Più che una «Chiesa di mattoni», ha detto, si punterà sulla «Chiesa di persone» che, come ha più volte auspicato Papa Francesco, intende se stessa e opera come un «ospedale da campo». Per questa ragione le risorse economiche risparmiate saranno dirottate «verso quanti sono profondamente colpiti dalla crisi economica causata dalla pandemia». La costruzione di nuovi edifici, infatti, non è urgente, ha spiegato il provinciale, mentre «come membri della comunità cattolica indonesiana, vogliamo manifestare tutta la nostra solidarietà e vicinanza alle vittime di questa crisi e fare il possibile per alleviare la loro sofferenza».

Proprio per far fronte alle esigenze crescenti di persone, cattoliche e non, colpite duramente dalla crisi, i gesuiti indonesiani hanno lanciato una speciale raccolta fondi promossa attraverso un’iniziativa sportiva: una maratona compiuta con una staffetta virtuale. Ognuno dei partecipanti sceglie un tratto da percorrere e carica il suo tempo di arrivo su un sito web o un’app. Il criterio è «una rupia per ogni passo». I religiosi, infatti, hanno percorso una distanza corrispondente all’importo di ogni donazione ricevuta. E dopo oltre un mese di corsa comune — che ha coinvolto religiosi, alunni e allievi di scuole maschili e femminili, incluso padre Benny Juliawan — il Lembaga Daya Dharma, istituto sociale dell’arcidiocesi di Jakarta amministrato dal gesuita Christoforus Kristiono Puspo, ha potuto beneficiare dell’inattesa somma raggiunta grazie al crowdfunding: se l’obiettivo era raccogliere 500 milioni di rupie (circa 30.000 dollari statunitensi), il risultato complessivo, monitorato sui social media, è stato di 1,4 miliardi di rupie (quasi 100.000 dollari).

Per i gesuiti indonesiani impegnarsi in questo progetto è stato un modo per realizzare l’impegno della Compagnia a «camminare con gli esclusi e gli scartati». Più che il denaro raccolto, tuttavia, l’iniziativa ha dimostrato che, in assenza di raduni di massa, in un tempo di crisi economica e sociale, si può promuovere la solidarietà grazie alla creatività e alla collaborazione di molti.

È lo spirito che oggi l’intera comunità cattolica indonesiana vive e promuove come «pienamente rispondente all’identità stessa dell’Indonesia», ritrovando la piena comunione con ampi settori della società civile e di istituzioni educative nel Paese musulmano più popoloso al mondo.

Il riferimento comune per i credenti, cristiani e musulmani, è la Pancasila, la Carta dei cinque principi alla base della convivenza civile: «La Pancasila stabilisce come comportarci verso gli altri, dando priorità all’interesse nazionale e alla giustizia sociale», ha sottolineato Yenny Wahid, leader della Whaid Foundation, organizzazione creata nel 2004 da suo padre, Abdurrahman Wahid, indimenticato presidente del nuovo corso democratico dell’Indonesia. L’ideologia della Pancasila svolge tutt’oggi nel Paese asiatico un ruolo di promozione a tutti i livelli di coesione sociale e anche di convivenza interreligiosa, tanto più necessaria in tempo di pandemia. Tra i “cinque pilastri”, promulgati nella Costituzione del 1945 durante la proclamazione dell’indipendenza, al primo posto fu messo il diritto di praticare la propria fede: «Il principio afferma che dobbiamo credere in un Dio supremo, non chi dobbiamo venerare», specifica Yenny Wahid. È la garanzia della libertà religiosa. Seguono civiltà, unità nazionale, consenso e giustizia sociale.

Nel 1945, il presidente Sukarno presentò ufficialmente la dottrina della Pancasila, appunto la carta dei cinque pilastri su cui poggia la filosofia di convivenza multietnica e multireligiosa del vasto arcipelago. Proprio riferendosi a quella Carta fondamentale, l’attuale presidente della Repubblica, Joko Widodo, ha chiesto ai rappresentanti delle maggiori comunità religiose piena collaborazione e sostegno per costruire armonia e fraternità in un momento difficile della nazione, toccata dal covid-19 e dalla crisi socio-economica. La Pancasila, ha esortato, resti il «faro guida» per rilanciare lo spirito della nazione indonesiana, «la cura, la cooperazione reciproche e la fratellanza». Ha accolto con favore l’invito della comunità dei battezzati, in una nazione che, su 263 milioni di persone, vede la presenza di circa 30 milioni di cristiani di tutte le confessioni, trai quali 8 milioni di cattolici. Al riguardo monsignor Paskalis Bruno Syukur, vescovo di Bogor e vicepresidente della Conferenza episcopale indonesiana, ha affermato che «leader religiosi e funzionari governativi sono chiamati a lavorare insieme per promuovere la pace, l’amore e la solidarietà tra le diverse comunità».

È compito di ogni comunità e di ogni credente, a qualsiasi comunità appartenga, ha aggiunto Gomar Gultom, leader della Central Church Fellowship in Indonesia, «trovare strade perché la pratica di culto possa contribuire agli ideali di pace e prosperità del Paese, aprendo la strada al progresso delle persone e al bene comune». Offrire il proprio specifico contributo allo sviluppo della nazione è un passo condiviso dai leader religiosi in una nazione che persegue un modello di democrazia che porta speciale attenzione ai valori di tolleranza e pluralismo, riassunti nel motto «unità nella diversità», insiti nella filosofia della Pancasila.

di Paolo Affatato