Le figure di Monica e Agostino nell’opera di Venanzio Reali

Come la punta di un fiammifero

Fernando Álvarez de Sotomayor «Agostino e Monica» (1917)
03 ottobre 2020

Come può la poesia rappresentare l’indicibile di un incontro con la divinità o una sua visita? Tra le figurazioni di cui si avvale l’immaginazione di un poeta quella di una veste interamente infiammabile come la capocchia di un fiammifero («tuta solfina») sembra tradurre quanto più compiutamente all’esperienza sensibile i termini di una contemplazione suscitata dall’aver meditato un episodio del genere.

Si tratta del celebre brano delle Confessioni in cui Agostino, facendo memoria degli ultimi giorni della madre, tramanda l’evento mistico di un’estasi condivisa. Un evento inconsueto, poiché della mistica si tramandano di solito esperienze solitarie. Sant’Agostino e la madre si trovavano sul lido di Ostia, alla foce del Tevere, in prossimità del viaggio che li avrebbe riportati a casa, oltremare. La poesia in cui si rievoca questo episodio è Monica e Agostino, edita nel volume Vetrate d’alabastro. Confessioni e preghiere (Forlì Forum/Quinta generazione, 1987).

L’autore, padre Agostino Venanzio Reali (nato a Montetiffi di Sogliano al Rubicone il 27 agosto 1931, morto a Bologna 15 marzo 1994) ne fa oggetto di contemplazione e preghiera: contemplazione nel mentre pone lo sguardo interiore su quel singolare contesto interrogandosi intorno a quella esperienza, chiedendosi cosa i santi possano avere provato e come poterlo esprimere.

Aveva letto quel capitolo dell’autobiografia di Agostino verosimilmente durante un campeggio estivo («lessi un’estate remota») da giovane seminarista. La sorgente del Tevere si trova a Balze di Verghereto, località vicina sia alla casa d’origine che al seminario che l’aveva accolto, undicenne, a Cesena. Più tardi, dopo tanti anni da quella prima lettura e verosimilmente quando, giovane sacerdote, per motivi di studio risiede a Roma, nell’occasione di una visita a Ostia Tiberina proprio là dove Agostino e Monica hanno vissuto anche sensibilmente quella esperienza, il pensiero di una corrispondenza tra fonte e foce offre l’intuizione di una più alta corrispondenza, e non semplicemente metaforica, tra inizio e fine.

Si tratta di un argomentare analogico per via di metafore, di metafora in metafora, che magari non si coglie immediatamente a una prima lettura, ma che implicitamente va nella direzione dell’infinito mare da cui si proviene e a cui si è richiamati, per cui il nostro esserci qui e ora, proiettati nell’essere, si può pensare quasi àncora che morde l’abisso la cui profondità rimane inattingibile alla mente («senza che mai la mente / approdasse all’identico eterno»).

Reali aveva letto quel brano al principio della sua formazione francescana; nel momento in cui scrive si trova non più alla sorgente ma alla foce del fiume, là dove i santi hanno vissuto quella vicenda e dove si conclude la vita terrena di Monica.

Ma, con sentire propriamente bonaventuriano, alle vette del pensiero non si giunge per le vie della speculazione razionale. Così la poesia, come quella “contemplazione”, vira verso la preghiera, poiché a un certo punto, delineato il contesto, dalla sorgente del fiume al mare, l’autore introduce un Tu con cui interloquire, intorno a quel flusso reale e metaforico al contempo (ma più che reale): «Esulavano le celesti onde / della tua sorgente / fonte della vita». Tre versi con i quali padre Agostino Venanzio Reali traduce da poeta un passaggio fondamentale di quel decimo capitolo del libro ix delle Confessioni («sed inhiabamus ore cordis in superna fluenta fontis tui, fontis vitae, qui est apud te, ut inde pro captu nostro aspersi quoquo modo rem tantam cogitaremus») del quale le celesti onde sembrano la resa più congrua di quel superna fluenta.

Nella dolcissima loro intima conversazione i santi si chiedevano quale potesse essere, quale possa essere, la vita eterna dei beati. Agostino Venanzio Reali vede come un movimento inverso nella beatitudine di quella estasi: non tanto i santi si inoltrano, nel loro argomentare, nell’alto fluire della Fonte cui anelano; ma contemplando il fiume della grazia che li investe, essi, fatto vuoto di tutte le cose del mondo, spalancano la bocca del cuore. Su questo fiume di grazia il poeta si concentra, sul celeste nutrimento: esulavano le onde del cielo. Era quel flusso di vita celeste che veniva a inondarli, oltre i limiti del divino nascondimento.

E quel Tu cui si rivolge il poeta come già i santi nel contesto di quel giardino sotto un cielo stellato, in questo nodo di fisico e metafisico intorno all’elemento mare, quel Tu, in perfetto accordo con Agostino si riconosce come il Verbo: «Il tuo verbo fiammeggiando sulla guglia del pensiero».

Monica e Agostino avevano passato in rassegna tutta l’opera della creazione, dal grande libro della natura erano passati a considerare il pensiero umano e si erano spinti oltre, più in alto, «per raggiungere gli spazi della inesauribile ubertà ove Tu pasci eternamente Israele con il cibo della verità, dove vita è la sapienza che dà l’essere a tutte le cose, alle passate e alle future: ed essa non ha successione, ma è come fu, come sarà, sempre. Anzi, meglio, non esiste in lei un “fu”, un “sarà”, ma solo l’“è”, perché è eterna: il fu e il sarà non appartengono all’eternità. Parliamo, aneliamo ad essa, ed ecco, la sfiorammo un poco in uno slancio del cuore; e con un sospiro vi lasciammo avvinte le “primizie dello spirito” per ridiscendere al suono delle nostre voci, dove la parola ha inizio e dove si esaurisce. Quale possibilità di confronto tra essa e il tuo Verbo, che permane in se stesso, e non invecchia e rinnova tutto?» (traduzione di Carlo Vitali). Con Agostino Reali inneggia al Verbo che arde d’amore sulle più alte vette del pensiero umano.

Ed ecco, capitolando la mente, ma declinando le più alte e più armoniose forme del pensiero (sulla guglia del pensiero) — poiché non la speculazione razionale soccorre in questo ambito, più fecondo il pensiero del cuore — ecco come si chiude la preghiera: «Lo spirito più non ascolti / che il suo lene sussurro / oltre quello inesausto / del tuo universo. Il nostro spirito ascolti solo la voce sottile, sussurro soave del Suo Spirito».

di Anna Maria Tamburini