Il «nascondimento» di Dio nel pensiero di quattro filosofi del Novecento

Alla ricerca del linguaggio perduto

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02 ottobre 2020

«Solo un dio, secondo Benjamin — un evento divino — può garantire la salvezza. Divino come il fenomeno stesso del linguaggio». Wolfram Eilenberger è uno studioso di filosofia che insegna in varie università americane ed europee. Si interessa soprattutto dei rapporti tra la filosofia, la filologia e la psicologia. Ma non solo. In questo suo Il tempo degli stregoni (Milano, Feltrinelli, pagine 391, euro 25) uscito nel 2018 e subito tradotto in Italia, affronta un altro decisivo problema posto dalla modernità: il rapporto con l’Altro. Lo fa approfondendo alcuni tra i nodi più intricati del pensiero contemporaneo, che a sua volta rimandano molto, molto indietro, fino ai pre-socratici e che ancora oggi inviano inquietanti bagliori, soprattutto perché uno dei pensatori qui “indagati”, Heisenberg, ha aderito al nazismo e indicato in Hitler la guida da seguire. Il pensatore di Essere e tempo si trova qui in ottima, seppure diversa per orientamento, compagnia, perché gli altri protagonisti di questa lunga passeggiata filosofica, sono il già citato Walter Benjamin, Ludwig Wittgenstein e Ernst Cassirer, vale a dire alcuni tra i più importanti e problematici punti di riferimento del Novecento.

Allora, soprattutto Benjamin, piuttosto snobbati non solo dalla cultura ufficiale, ma anche dalle avanguardie che popolavano le capitali della cultura di un secolo fa: Parigi, Vienna, Berlino, anche se Cambridge con il suo ristrettissimo aristocratico circolo di neo-logici ed empiristi ha avuto la sua parte, per quel che riguarda Wittgenstein. Il quale era stato praticamente investito, senza saperlo e volerlo, del carisma di nuovo Messia laico: come scrisse John Maynard Keynes, inascoltato profeta dei rischi della punizione dei debiti di guerra alla Germania, «Dio è arrivato, l’ho incontrato sul treno delle cinque e un quarto», alludendo al ritorno in Inghilterra di un genio che dopo la parola fine sul suo capolavoro, il Tractatus logico-philosophicus, si era messo a fare il maestro elementare in piccoli borghi delle Alpi tedesche. Il problema è che i raffinati, elitari adepti del circolo degli “apostoli” di Cambridge avevano deciso di eleggere come guida uno che da parecchio tempo aveva abbandonato la speculazione razionale e logica, e stava cercando di riscoprire la presenza di Dio sulla terra. E sulla sua propria strada. Bertrand Russell, ad esempio, pur stimandolo molto, si chiedeva se per caso fosse uscito di senno. Lui avrebbe risposto che era sì uscito, ma dalla logica deterministica. Un po’ come Benjamin, angelo perduto alla ricerca di un lavoro in una Germania che il trattato di Versailles aveva consegnato alla fame, alla miseria, alla violenza. E al nazismo. E questa potrebbe non essere un’altra storia. Un ammonimento indiretto racchiuso, come vedremo, in un libro che narra eventi molto utili per capire il nostro oggi. Benjamin è alla ricerca non solo di un posto di lavoro, ma anche del linguaggio perduto. Perché è lì che lui tenta di scoprire l’antica impronta originaria, quella che mostrava il mondo, non solo lo diceva. Esattamente come tentava in quegli stessi anni di fare il misantropo, scostante (con un sospetto, qui ricordato, di sindrome di Asperger) Wittgenstein. La lingua non deve dire, deve trovare la purezza del senso mostrando il mondo. Ambedue sono convinti che la spocchiosa cultura degli intellettuali non riuscirà mai a mostrare un bel nulla, ma anzi porterà sempre più distante l’uomo dal linguaggio originario. E dalla vera ragione, anche se nascosta agli uomini, soprattutto, sembra un paradosso, ai colti. E oltre i segni del linguaggio? Qui le strade si dividono. L’“olimpico” Cassirer lascia tutte le porte aperte, sulla strada però non della Bibbia, come Benjamin, o nel mostrare l’oltre di Wittgenstein, ma su quella tracciata da Kant e Goethe, e ancora prima, dal Rinascimento: vale a dire sul riconoscimento che non c’è solo spirito, come nel medioevo, ma neanche solo corpo, bensì un insieme che oggi chiameremmo olistico.

Il suo “nemico” Heidegger la vede, da questo punto di vista, quasi allo stesso modo, anche lui avrebbe usato il termine olistico, ma in direzione opposta: l’uomo è solo con se stesso, gettato nel qui e nell’ora, e può contare solo sulla sua azione; ma deve anche tornare a casa, nel senso che deve abbandonare le stratificazioni borghesi del lusso, della comodità, del benessere materiale, e riandare alla grande madre natura, come faceva lui quando si ritirava per mesi nella sua Hütte — una piccola casa di legno — a milleduecento metri di altitudine nella Selva Nera. Wittgenstein voleva andare oltre. Come in un suo celebre passo del Tractatus, ripreso poi anche nel Nome della rosa di Umberto Eco, aveva capito che doveva buttare la scala usata per salire. Non era un parolaio: aveva abbandonato tutto, rinunciando alla propria ricca parte di eredità, si era arruolato per combattere nella prima guerra mondiale mostrando un grande sprezzo del pericolo, e quando aveva deciso che le parole non bastavano più, aveva tentato la via del monastero, preclusagli dal deciso rifiuto del priore del convento dei fratelli misericordiosi di Hütteldorf.

Ma c’è un ulteriore singolarità che Eilenberger mette giustamente in evidenza: Davos. A quasi milleseicento metri sul livello del mare, nelle alpi svizzere si svolge ogni anno il Forum economico mondiale, che dovrebbe tener conto di alcuni segnali che vengono da lontano: dalla “pace” di Versailles; qui si è verificato lo scontro tra i due titani, Cassirer e Heidegger; qui si svolge l’inquietante storia della Montagna incantata di Thomas Mann, che narra un ambiguo paradiso, l’abbandono di quell’illusorio Eden per affrontare la caduta della guerra. Segni che dovrebbero farci ben riflettere. Come fa questo libro che ci ricorda due fatti assai attuali ma che spesso vengono tenuti nascosti dalla trasmissione mediatica: il pericolo delle “punizioni” economiche verso i paesi poveri e inadempienti, sempre in agguato nel nostro oggi, e la ricerca di senso nella fede, da parte di coloro che vengono indicati come maestri del pensiero critico moderno e di cui si nasconde spesso la ricerca religiosa.

di Marco Testi