Dal testo conclusivo

Verso una “ecologia integrale”

SS. Francesco - Aula Paolo VI: Incontro con i Giovani  06-10-2018
04 settembre 2020

Don Rossano [Sala], in tantissimi contributi del testo, presenta il cammino del Sinodo. La maggior parte dei 32 saggi è “contaminata” da ciò che è avvenuto al Sinodo. Effettivamente di questa esperienza resta veramente una grande eredità per i prossimi anni. Ci sarà molto da studiare e meditare, tanto da imparare e assimilare. In forma sintetica mi ha molto colpito il contributo n. 16 (Insieme sulla via di Emmaus. Per una ricezione virtuosa del cammino sinodale), perché mi pare che sia proprio il centro prospettico da cui partire per leggere tutti gli altri contributi. Offre una criteriologia adeguata, fornendoci un metodo di lettura e un ordinamento dei tantissimi materiali generati dal cammino sinodale. E lo fa prendendo avvio dai quattro grandi principi espressi nella parte finale dell’Evangelii gaudium. Essi restano, a mio modesto parere, dei punti di riferimento metodologici permanenti per il prossimo decennio e anche oltre.

Primo, il tempo è superiore allo spazio. Occupare spazi è espressione di potere, di clericalismo, di arroganza. Tutte cose che portano alla “superbia della vita” e che non edificano, ma mortificano le persone e le comunità. Generare processi che si distendono nel tempo invece è il chiaro segno che il regno di Dio è in mezzo a noi, e che si fa largo dentro la storia. La Chiesa, se vuole camminare sulle orme del Signore, ha bisogno di diventare sempre meno apparato burocratico di gestione del potere e sempre più generatrice di processi virtuosi di crescita comunitaria.

Secondo, l’unità prevale sul conflitto. In questo inizio del terzo millennio assistiamo a una violenza nelle relazioni e a un uso sempre più strumentale dei legami. Il mondo digitalizzato a volte rafforza e incrudisce tali dinamiche. E questo si registra a tutti i livelli, sia sociali che ecclesiali: pensiamo solo al mondo della politica, dove l’insulto e la denigrazione sono all’ordine del giorno. Ma questo lo vediamo troppe volte in casa nostra, nella Chiesa, dove il rispetto, la discrezione, il silenzio e la preghiera lasciano il posto a continui e oramai sempre più insopportabili “hate speech”. Eppure il segno del discepolato cristiano dovrebbe essere proprio la koinonia, ovvero quella comunione che nasce da Dio e si diffonde dappertutto come il “buon profumo di Cristo”.

Terzo, la realtà è più importante dell’idea. Al Sinodo abbiamo fatto un bagno nella realtà, al di là di tutto ciò che si sente dire dei giovani. Abbiamo toccato con mano che il generico e anonimo “si dice” molte volte non ha nulla a che vedere con ciò che realmente accade nella vita e nel cuore dei giovani, che sempre hanno mostrato sensibilità, appartenenza e collaborazione. I giovani ci hanno stupito in positivo, sempre! Le nostre idee “su” di loro sono state convertite dal nostro camminare “con” loro. La realtà continua ad essere la prima grande maestra di vita, il punto di partenza per ogni discernimento educativo, pastorale, culturale e sociale.

Quarto, il tutto è superiore alla parte. Quest’ultimo principio ci pone tutti su un piano di umiltà. Non siamo tutto e non dominiamo il tutto. Siamo una piccola pietruzza di un mosaico che è molto più grande di noi e di cui non possediamo la mappa complessiva. Partecipare ad un evento di Chiesa universale, come è stato il Sinodo dei giovani, ci fa sentire piccoli e poveri. Ma insieme ci invita a dare con coraggio il nostro apporto per un tutto che è superiore e migliore di ognuno noi preso singolarmente.

Ecco, penso che il Sinodo ci abbia restituito prima di tutto un modo di procedere, uno stile per camminare insieme, che fa davvero la differenza. Prima che dei contenuti — “Che cosa stiamo facendo” — siamo chiamati a preoccuparci dei metodi — “In che modo lo stiamo facendo”. In questo senso mi è molto piaciuta la sintesi di don Rossano nel contributo n. 20, quando si parla del necessario passaggio dal fare per all’essere con. È proprio così! Quando “abbiamo fatto” qualcosa per i giovani, li abbiamo esclusi e abbiamo rischiato di applicare le nostre categorie preconfezionate alla loro esistenza. Quando invece “siamo stati” con i giovani, vivendo secondo la logica dell’ascolto e del dialogo, siamo cresciuti con loro e siamo diventati più uomini, più cristiani, più autenticamente cattolici.

Verso una nuova stagione

In questa raccolta di contributi don Rossano ha espresso in vari passaggi la convinzione che si chiuda un decennio (forse anche una intera stagione, che si era aperta dopo la Seconda Guerra Mondiale) e se ne apra un altro. Senza dubbio, in questo prossimo decennio che sta incominciando il compito educativo non può essere portato avanti con le solite abitudini, pensando che sui giovani abbiamo detto e fatto tutto quello che era necessario. Tutt’altro: come recita il sottotitolo dell’intero volume, siamo chiamati a “Educare ancora alla buona vita del Vangelo”. Mi si dirà: essere ragazzi, adolescenti e giovani fa parte dell’esistenza umana in quanto tale, fa parte dello sviluppo umano che esige prossimità, accompagnamento e formazione. Si tratta di qualcosa di permanente e che sempre va ogni volta ripreso da capo. Certamente è così, ma sta cambiando la modalità dell’educazione e della pastorale dei giovani. E c’è più discontinuità che continuità. Vorrei dire, a questo proposito, che non sappiamo davvero dove stiamo andando: nessuno lo sa con precisione e chi afferma di saperlo con sicurezza sicuramente sta barando, perché in questo momento storico il cambiamento è troppo rapido per essere dominato. Se prima era difficile avere delle “ricette pronte”, adesso è proprio impossibile!

E poi, a confermare la verità di queste intuizioni, c’è la grande pandemia in atto a livello mondiale. Un evento che tocca tutti gli uomini e che nessuno aveva realmente pronosticato, almeno in queste dimensioni! Cose da film fantasiosi, buoni per passarci una serata di relax, “da schermo” e non “da realtà”. Invece siamo stati chiusi in casa più di due mesi, e la stessa esperienza la sta vivendo metà dell’umanità. La pandemia ci ha inserito in un tempo diverso, che non avevamo mai percepito così. Un tempo di oscurità e di morte, ma anche di gesti straordinari di amore. Tempo di silenzio ossessivo e forzato, ma anche possibilità di recupero di una capacità contemplativa che avevamo perso.

Non sappiamo quando e come finirà tutto ciò. Siamo certi che molte cose cambieranno, ma non sappiamo in che modo. Come è ben affermato all’inizio del contributo n. 22, citando il profeta Geremia si dice che «anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare» (Ger 14, 18). La criticità che stiamo vivendo a livello globale è destinata senza dubbio a cambiare le regole del gioco, anche se in realtà non sappiamo se in meglio o in peggio.

Tutti noi sogniamo che quando ciò che sta avvenendo finirà, ne usciremo più maturi. Ovvero più solidali, più capaci di amicizia, comprensione e sguardo amorevole. Speriamo tutti di essere più consapevoli della nostra responsabilità gli uni verso gli altri, del fatto di trovarci sulla stessa barca, destinati a salvarci o perire insieme. Ma non è per nulla scontato che le cose vadano così.

C’è infatti il pericolo che le cose si orientino nella direzione opposta, che ognuno si chiuda ancora di più nei propri interessi privati e personali, regionali o nazionali, etnici o religiosi. Che si voglia riprendere e continuare tutto come era prima. Se le cose prenderanno questa piega, il mondo non metterà da parte gli aspetti che lo rendono più simile a un grande inferno: aumenterà l’isolamento, cresceranno i conflitti, lieviterà la mercificazione delle persone. Sarà il trionfo dello sfruttamento della terra, della globalizzazione dell’indifferenza e si amplierà esponenzialmente la cultura dello scarto. Tutto andrà a detrimento dell’uma-nità intera, ma a pagare il prezzo più alto saranno i giovani.

Dove andremo dunque? Dipende da noi, dalle nostre scelte personali e comunitarie. Ed è una questione di fede! Come cristiani ciò dipenderà dal modo in cui imposteremo il no-stro essere Chiesa come comunità di salvati dall’unico Signore che ci fa tutti fratelli. Si apre qui quella che mi piace chiamare la “profezia della pastorale”. Certo, perché la Chiesa, in quanto sacramento universale di salvezza, è un piccolo segno efficace di un modo di essere e di vivere che anticipa la pienezza del regno di Dio. La pastorale della Chiesa — sia essa educativa, catechistica, vocazionale, culturale, sociale — non può che essere una profezia a beneficio di tutti gli uomini. Il nostro modo di vivere, camminare, gioire e patire può essere un segno luminoso per tutti gli uomini e le donne del mondo intero. E ci allenerà a riconoscere quando la luce brilla là dove non ce lo aspettiamo, al di là delle frontiere che siamo sempre pronti a innalzare. In questo, soprattutto i giovani non smettono mai di stupirci!

Pensare e vivere in termini di “ecologia integrale”

Se non sappiamo bene dove andremo, abbiamo però una prospettiva e un metodo che possono guidarci in modo particolare nel compito di educatori. Sono quelli dell’ecologia integrale, che trova espressione nel magistero della Chiesa a partire dall’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, e che non possono essere ben compresi al di fuori della prospettiva tracciata dall’Esortazione apostolica Evangelii gaudium.

L’ecologia integrale, o la cura della casa comune — le due cose sono strettamente collegate —, è presentata dall’Enciclica come una esperienza umana integrale — quella di cui Francesco di Assisi è modello — e come uno stile di vita proposto a ciascun essere umano e a tutta l’umanità. Nella nostra società pluralista circolano molti altri progetti di vita, a partire da quello della gratificazione consumistica che «è il riflesso soggettivo del paradigma tecno-economico» (Laudato si’, n. 203). Con quale criterio ne sceglieremo uno anziché un altro e a quali risorse faremo appello per rimanervi fedeli quando inevitabilmente si mani-festeranno difficoltà e ostacoli?

Capite così che l’ecologia integrale non è soltanto un concetto da studiare, né tantomeno è una prospettiva “verde”, che riguarda solo l’ambiente. Quante volte è stata presentata in maniera riduttiva! È invece una prospettiva articolata, che collega tante dimensioni del nostro modo di leggere la realtà e di viverla, tante discipline e tante saggezze, tante professionalità e tante spiritualità. È quindi una proposta da approfondire e da mettere in pratica: «Uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità» (Laudato si’, n. 111).

Penso che sia chiaro, così, che l’ecologia integrale non possa essere una ricetta già pronta, ma al tempo stesso essa ci offre tanti fari che illuminano il cammino, tanti punti su cui appoggiarci e costruire nel prossimo decennio: «L’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita» (Laudato si’, n. 16). Ciò richiede una visione di lungo termine, che deve concretizzarsi nei luoghi e negli spazi in cui si coltivano e si propagano l’educazione e la cultura, si crea consapevolezza, si forma alla responsabilità politica, scientifica ed economica, e, in generale, si procede ad azioni responsabili. Il tutto fondato su una capacità di contemplare e una profonda spiritualità. In una prospettiva integrale non si possono separare la «preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore» (Laudato si’, n. 10) dalla presa di coscienza della responsabilità di ognuno di noi verso se stesso, verso il prossimo, verso il creato e verso il Creatore.

Vivere l’ecologia integrale richiede poi oggi un’autentica disponibilità al dialogo. Sia ben chiaro: non si tratta di perdersi o annacquare l’identità cristiana. Si tratta piuttosto come cristiani di imparare a vivere in una società multiculturale; e i giovani sono molto sensibili a questo. Un dialogo che non può limitarsi allo scambio di idee, ma che deve assumere la dimensione operativa del “fare insieme” e quella sinodale del “camminare insieme”: esso potrà rivelarsi anche un’occasione di annuncio e far avviare percorsi di riscoperta della spiritualità e di conversione, anche a partire dall’impegno per la casa comune. Uno sforzo particolare è necessario per garantire che al dialogo prendano parte anche i più poveri ed esclusi, tra cui tanti giovani.

La sfida pastorale ed educativa in una prospettiva di ecologia integrale è quindi quella di promuovere una nuova sensibilità che «recuperi i diversi livelli dell’equilibrio ecologico: quello interiore con sé, quello solidale con gli altri, quello naturale con gli esseri viventi, quello spirituale con Dio» (Laudato si’, n. 210) e che renda capaci di affrontare situazioni inedite e non prevedibili, a «disporci a fare quel salto verso il Mistero» (Laudato si’, n. 210). Questa educazione richiede così una trasformazione personale in termini di motivazioni forti che generino nuove abitudini e uno stile di vita più responsabile e consapevole della dignità di ogni persona.

In questa prospettiva l’esperienza che si propone ai giovani diventa realmente un patrimonio di cui si appropriano solo dopo un ritorno riflessivo su ciò che hanno vissuto in tutta la sua profondità e ricchezza, intellettuale ed emotiva. È questo passaggio riflessivo a mettere insieme realtà e idee, abilitando a una decisione libera e consapevole in vista di un passaggio all’azione, che diventa la base di una successiva esperienza. Va sottolineato come non si tratti di una operazione astrattamente intellettuale, ma che richiede l’esercizio di tutte le facoltà e capacità della persona, favorendo l’integrazione di mente e cuore, di razionalità, emozioni e desideri. Anche questo fa parte del progetto dell’ecologia integrale. Essa chiede di lasciarci «toccare in profondità» (Laudato si’, n. 16) dai dati della realtà ricevuti dalle scienze e dall’esperienza; finché questo non accade, a livello esistenziale si resta nel campo dell’astrazione e dell’intellettualismo, con il conseguente rischio di non trovare una motivazione diversa dall’ideologia per passare all’azione, e soprattutto di non riuscire a perseverare nel proprio impegno.

Ma l’ecologia integrale richiede anche un ultimo ingrediente “segreto”, che indica profondamente la via da seguire e orienta il discernimento di fronte all’incertezza: la gioia. «Camminiamo cantando! Che le nostre lotte e la nostra preoccupazione per questo pianeta non ci tolgano la gioia della speranza». (Laudato si’, n. 244). È chiaro che questa gioia che percorre l’intera enciclica, non è una euforia spensierata e superficiale, destinata a finire nello stordimento o nella delusione al primo scontro con la realtà. È piuttosto il gusto profondo che lascia ogni esperienza di pienezza umana autentica, che «ci restituisce il senso della nostra dignità, ci conduce ad una maggiore profondità esistenziale, ci permette di sperimentare che vale la pena passare per questo mondo» (Laudato si’, n. 212). Una volta provato, questo gusto resta impresso nella profondità della persona, diventando così stimolo a cercare nuove occasioni per sperimentarlo, criterio per valutare la bontà delle proprie scelte e riserva di energie a cui attingere per confermare l’impegno di fronte alle inevitabili difficoltà e sconfitte. Il credente non faticherà a riconoscere l’affinità tra questa gioia e quella del vangelo, che «riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù» (Evangelii gaudium, n. 1).

Penso che per fare pastorale giovanile nel prossimo decennio bisognerà partire da questo sguardo, che non può essere sostenibile senza una autentica «solidarietà fra le generazioni» (Laudato si’, n. 159): verrebbero meno le condizioni di possibilità della stessa azione pastorale! Dobbiamo domandarci, come premessa all’azione pastorale: «Che tipo di mondo desideriamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo? Questa domanda non riguarda solo l’ambiente in modo isolato, perché non si può porre la questione in maniera parziale. Quando ci interroghiamo circa il mondo che vogliamo lasciare ci riferiamo soprattutto al suo orientamento generale, al suo senso, ai suoi valori» (Laudato si’, n. 160).

Se davvero tutto è connesso, significa che tutto ciò che facciamo ha una conseguenza non solo per noi stessi, ma anche per tutti gli altri. Sono profondamente convinto che questo valga ancora di più per la pastorale della Chiesa: la pastorale è una, perché tutto è connesso e tutto ciò che facciamo in un campo della pastorale ha conseguenze per tutti gli altri. Incominciamo dunque ad affrontare il tempo in cui stiamo per entrare nella prospettiva dell’ecologia integrale, così da poter offrire ai giovani che incontriamo ragioni di vita e di speranza concrete, realizzabili e vivibili.

di Giacomo Costa