Un saggio di Giuliano Ladolfi sul magistero poetico di Mario Luzi

Una parola che vola alta
E cresce in profondità

Mario Luzi in un’incisione di Pietro Tarasco
14 settembre 2020

Negli ultimi tre decenni della sua lunga e operosa giornata terrena Mario Luzi (Castello, 1914 — Firenze, 2005) conquistò un numero impressionante di allori. Non solo eccelsi premi letterari assegnati, in Italia e all’estero, a ogni sua nuova raccolta poetica; anche lauree honoris causa, cicli di lezioni e conferenze in prestigiosi atenei stranieri, cittadinanze onorarie (Siena, Genova, ecc.). Nel 1997 gli fu conferita dall’ambasciatore francese la Légion d’Honneur. Nel 1999 il Papa Giovanni Paolo II consacrò il suo “cristianesimo agonico” incaricandolo di scrivere un commento poetico per il rito della Via crucis al Colosseo. Infine, nell’ottobre del 2004, in occasione del suo novantesimo compleanno, l’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, lo nominò senatore a vita: supremo riconoscimento motivato non solo da «altissimi meriti nel campo letterario e artistico», ma anche dall’impegno etico e civile come sapiente maître-à-penser.

Eppure in questa vetrina d’eccezione è venuto a mancare il più glorioso e ambìto dei trofei: quel Premio Nobel per la letteratura che avrebbe innalzato Luzi all’empireo della cultura internazionale, accanto a Quasimodo e Montale. L’Accademia dei Lincei sostenne la sua candidatura dal 1991 fino al 1997, quando sorprendentemente (o scandalosamente, secondo i punti di vista) gli fu preferito Dario Fo. «L’opera di Luzi non ha conseguito la fama meritata. Complice forse la mancata assegnazione del Premio Nobel?» osserva Giuliano Ladolfi, al tempo stesso autore ed editore, nella premessa del suo saggio, tanto ricco di lucidi e appassionati approfondimenti quanto immune da incensazioni celebrative, che s’intitola, con espressione squisitamente luziana, Semi a dimora a lungo inoperosi, e che nel sottotitolo annuncia come specifico argomento Il magistero poetico di Mario Luzi (Borgomanero, Giuliano Ladolfi Editore, 2020, pagine 302, euro 20). A posteriori, la “bocciatura” dell’Accademia svedese non sembra in realtà avere inciso sull’oggettivo appannamento della “fortuna” postuma del poeta, saggista, drammaturgo, cattedratico fiorentino. Il conferimento di quell’onorificenza avrebbe probabilmente esaurito in breve tempo il suo effetto promozionale. Ne è convinto Ladolfi, ex insegnante e preside, colto italianista (basta citare i cinque tomi della sua enciclopedica indagine sulla Poesia del Novecento dalla fuga alla ricerca della realtà), fondatore e direttore della rivista di poesia, critica e letteratura «Atelier», prossima a tagliare il traguardo dei 100 numeri. Del resto, già prima che la pandemia terremotasse anche il mondo culturale, l’eredità letteraria di Luzi era entrata in un cono d’ombra. Non c’è dunque da stupirsi che una cappa di silenzio sia ben presto calata sul quindicesimo anniversario della morte (28 febbraio), malauguratamente coinciso proprio con l’esplosione dei primi contagi da covid-19.

La principale causa di questo progressivo declino consiste semmai — suggerisce Ladolfi — nella complessità di una cifra poetica di non facile penetrazione in ambito scolastico, nell’elevatezza di un pensiero poetante memore dei paradigmi dantesco e leopardiano, che alla propria parola chiede di «volare alta» e di «crescere in profondità». «Luzi non è un autore semplice, più lo si legge e più ci si accorge di aver compreso poco di quel lungo lavoro durato settant’anni, eppure oggi più che mai occorre riproporlo all’attenzione della critica, delle università, dei giovani, dei mass media». La distanza temporale del punto odierno di osservazione permette a Ladolfi di ripercorrere l’intera produzione luziana secondo una prospettiva “integrata” e, almeno in parte, inedita. A cominciare dallo smantellamento di uno stereotipo ancora in circolazione: la persistenza dell’etichetta riduttiva di poeta “ermetico”, riferibile solo alla stagione giovanile di apprendistato, sullo sfondo di una Modernità trapassata poi in Postmodernità. Preconcetto, questo, che impedisce di cogliere il fieri — simile, tra avanzamenti, riflussi, oscillazioni, nuovi slanci, al sinuoso snodarsi di un fiume — di un inesausto work in progress, sempre fedele alla sua sorgiva vocazione e tuttavia sempre innovativo, metamorfico, tutto teso nello sforzo di «ricostruire il rapporto tra parola e realtà» su fondamenti “teandrici”, fino a un’armoniosa compenetrazione fra antropologia e teologia, o meglio cristologia, grazie alla presa di coscienza e alla rappresentazione dell’incarnarsi del Divino nella storia umana.

Ciascuno dei diciassette capitoli in cui si dipana l’itinerario critico di Ladolfi attraverso gli estesi e multiformi paesaggi poetici di Luzi, seguendo l’ordine cronologico di pubblicazione delle singole sillogi, obbedisce a un metodo efficacemente applicato anche in altre sedi. Due momenti di sintesi, introduttivo e conclusivo, racchiudono al centro una diffusa e minuziosa analisi in equilibrio tra filologia ed esegesi, intessuta di puntuali, probanti citazioni. Prima di addentrarsi in media carmina, comunque, il lettore viene propedeuticamente accostato a una panoramica della vita e delle opere di Luzi mediante due strumenti: le funzionali “Notizie biobibliografiche” a cura di Marco Merlin e una meditazione ad ampio respiro di Ladolfi sulla cangiante natura dei rapporti tra il poeta, inteso come intellettuale a tutto tondo, e il suo secolo, il Novecento. Con una sottolineatura della «grandezza» manifestata da Luzi nel «percepire lo Zeitgeist, lo “spirito del tempo”, e trasfonderlo nei suoi versi».

Lo Zeigeist che aleggiava a Firenze, nei circoli culturali e nelle redazioni delle storiche riviste, durante gli anni Trenta e parte dei Quaranta, era quello riconducibile al tanto discusso ermetismo.

Il giovane Luzi, esordiente con La barca (1935, 1942), rispecchiò fino ad Avvento notturno (1940), Un brindisi (1946) e Quaderno gotico (1947) le istanze del movimento teorizzato da Carlo Bo con il suo manifesto del 1938, Letteratura come vita. In queste prime raccolte il perseguimento della purezza verbale sulle orme di Mallarmé elude la relazione con il pulsare della vita collettiva dentro il mondo, privilegiando un intellettualismo ascetico, astratto, stilizzato, venato di neoplatonismo, in esilio da un’epoca e da una società vessate dal regime fascista e funestate dagli orrori della guerra.

In Primizie del deserto (1952) prosegue, ancora inquieta, la ricerca di un linguaggio nuovo. Ma in sostanza le coordinate tematiche e stilistiche restano ormeggiate, salvo minimi scostamenti, al retaggio dell’esperienza ermetica. È solo in corrispondenza di Onore del vero (1957) che si registra un approfondimento esistenziale e letterario conforme a un progetto di aggancio con una realtà ora popolata da personaggi autonomi rispetto al soggetto poetante. Un’ulteriore lieve correzione di rotta nella navigazione luziana coincide con il recupero delle radici toscane, segnato dall’incontro con la sofferenza e soprattutto con la morte della madre, donna di fede adamantina, in Dal fondo delle campagne (1965). Una sorprendente deviazione dal tracciato seguito fino allora conduce Luzi a Nel magma (1963, 1966): ispirato dalla lettura di sant’Agostino e di Teilhard de Chardin, il poeta si cala pienamente nel mondo, uomo fra uomini reali, partecipe delle comuni problematiche. Muta anche il codice formale di un poiein che tende, tra dialoghi distesi e interrogazioni dubitative, a sconfinare nella prosa. L’immersione nel fluire del tempo si accentua con Su fondamenti invisibili (1971), di fronte allo scandalo del dolore universale contrappuntato dalla figura di Cristo che oltre la desolazione proietta lo “scandalo della speranza”. E di questo coinvolgimento nella dimensione storica, pervaso da un afflato religioso di stampo creaturale piuttosto che confessionale, Al fuoco della controversia (1978) costituisce un nuovo, drammatico e ancor più agostiniano documento.

La svolta decisiva, la metánoia verso una riconsacrazione della parola alla luce del Logos che assimila la poesia alla profezia e del poeta fa uno “scriba”, nel segno di una fede pur sempre interrogante e dilemmatica, si profila nel 1985 con Per il battesimo dei nostri frammenti. Consolida e intensifica questo processo di superamento della crisi connessa al relativismo e al neopositivismo Frasi e incisi di un canto salutare (1990), dove Luzi affronta la sfida del «non detto / e non dicibile», raccoglie il «gemito / della crocifissa incarnazione» e abbraccia una visione francescana della natura, del creato, presupponendo una “contrazione” dell’essere nell’universo e dell’universo in ogni essere. In Gesù Cristo — intuizione suprema — si “contrae” l’intera realtà, l’intera umanità.

Su questo humus fertilizzato e fertilizzante germoglia il libro apicale di Luzi, il suo probabile capolavoro: Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994), di grandioso impianto poematico-narrativo.

Lo sguardo ermeneutico di Ladolfi vi penetra dopo tre excursus “iper-luziani” incentrati sulla donna «come universo emblematico» (tra sensualità e spiritualità materna), sulla presenza di Cristo nella storia «come unico strumento di comprensione della vita e della morte», e sulla confluenza di Essere, Divenire e Apparire nell’Armonia Divina.

Quanto al Viaggio di Simone, lo studioso borgomanerese ne rintraccia la chiave nella sistematicità del procedimento allegorico per cui il duplice percorso, materiale e spirituale, del pittore trecentesco, da Avignone alla nativa Siena, assurge a metafora della traiettoria esistenziale e artistica del poeta stesso, suo alter ego, in contemplazione di Dio e della Vergine quali emblemi danteschi di luce e di pace. Ed è quindi su un luminoso, infine pacificato itinerarium mentis et artis poeticae in Deum, screziato di serena meditatio mortis nella prospettiva escatologica dell’eternità, che imprimono un definitivo sigillo le ultime due raccolte pubblicate da Luzi in vita, Sotto specie umana (1999) e Dottrina dell’estremo principiante (2004), come pure — in tono minore — la postuma Lasciami, non trattenermi (2009).

A distanza di decenni, un suggestivo “responsorio” sembra raccordare la preghiera di Augurio, «Sia grazia essere qui, / nel giusto della vita, / nell’opera del mondo. Sia così», con l’invocazione elevata dall’estremo principiante: «Immutabile è solo il mutamento / in sé del mondo. Venga, venga il tuo regno».

di Marco Beck