Pubblicato da Treccani «Le parole valgono» scritto a quattro mani da Valeria Della Valle e Giuseppe Patota

Una miniera di segnali linguistici

«Dante e Beatrice sulle rive del Lete» (Cristóbal Rojas, 1889)
10 settembre 2020

«Le parole valgono» è il titolo dell’ultimo libro scritto a quattro mani da Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, collaudata coppia autorale di testi di linguistica, e pubblicato dalla casa editrice Treccani nella collana Visioni (Roma, 2020 pagine 160, euro 15). Già scorrendo l’indice dei capitoli il lettore scopre che l’opera è una vera e propria storia della lingua italiana, colta in alcuni dei passaggi più significativi, nei quali il significato testuale assume una rilevanza particolare per ragioni che vanno dal contesto alla datazione, dall’autore al momento storico che ne ha determinato la produzione.

Risulta difficile esemplificare, data la precisa capacità di scelta dimostrata da Della Valle e Patota nella loro selezione. Ogni scelta è significativa. Si va dal «Sao ko kelle terre» del Placito di Capua, inizio riconosciuto della lingua volgare scritta, agli orientamenti rigorosamente fiorentini dei primi membri dell’Accademia della Crusca, alla ricerca dei lontani antecendenti dell’iterazione del «bella ciao, ciao, ciao» in quella che è probabilmente la canzone italiana più celebre. Del resto il saluto di commiato italiano per eccellenza, è impiegato con adattamenti diversi in almeno ventitré lingue e in parecchie loro modulazioni, dal coreano allo spagnolo, comprese le varianti argentina, cubana, messicana e venezuelana.

Le Parole Valgono è una vera miniera di segnali linguistici presentati con la levitas della curiosità, che analizzati più da vicino si rivelano tracce significative di un passato complesso, che ha inciso in profondità nelle parole che usiamo. A partire dalle prime del Placito di Capua: il “sao” costruito su “sai” con la dinamica con la quale i bimbi scoprono la lingua e il “ko” scritto con la cappa, lettera frequente nell’uso telefonico degli sms, espulsa senza ragione dall’italiano ma capace di rientrare dalla finestra dopo essere uscita dalla porta.

Commovente il capitolo dedicato al Cantico di Frate Sole, scritto e musicato da san Francesco, come risulta evidente dal manoscritto 338 conservato ad Assisi che riporta un rigo su tre linee destinato a ospitare le note purtroppo tralasciate dal copista. È il primo esempio di inno di lode a Dio scritto in volgare per essere meglio compreso dai frequentatori delle piazze nelle quali i primi francescani andavano a proclamare cantando la gloria del signore. Anche nel Cantico si cela la cappa, insieme a una parola che in italiano propriamente non esiste, robustoso, dato che non se ne segnalano altre occorrenze, ma tutti i vocabolari la riportano ugualmente, per rispetto al santo e perché i curatori sono consapevoli del valore complessivo del testo.

La riflessione su Dante, e sulla Divina Commedia in particolare, recupera il lavoro strutturalista di Tullio De Mauro per ricordare che l’italiano è costruito attorno a un insieme di circa duemila parole di larghissimo uso sufficienti alla costruzione del novanta per cento della nostra comunicazione scritta e parlata. Di esse più di milleseicento sono già presenti nella Commedia. Proseguendo nella lettura scopriamo che fra di esse non c’è il celeberrimo «ciao», parola giovane, nata non più di tre secoli fa come deformazione del veneziano sciavo, schiavo, servo vostro, veicolata nell’italiano comune forse attraverso Milano.

Fra coloro che hanno contribuito ad arricchire la nostra lingua, Della Valle e Patota segnalano Leonardo da Vinci. Il grande pittore, scienziato, architetto, tecnico si schernisce nel Codice di Windsor scrivendo di «essere omo senza lettere». Nonostante questo è a lui che si devono alcuni termini tecnici contenuti nel Libro della Pittura, pubblicato postumo dall’allievo Francesco Melzi, tra i quali i diffusissimi «ritratto» e «chiaroscuro». C’è anche la prospettiva aerea, che non si riferisce a una ripresa dall’alto quanto a una tecnica pittorica che riducendo la messa a fuoco di alcuni elementi architettonici o naturalistici determina l’organizzarsi nel dipinto di una successione di piani.

Molto interessanti le ricerche relative a due testi di grande valore storico per la nostra comunità nazionale: l’Inno di Mameli e Bella Ciao. L’analisi linguistica e la ricerca delle derivazioni letterarie portano a sviluppare considerazioni interessanti. Pur se i riferimenti storici dell’inno nazionale sono lontani dalle conoscenze diffuse nel Paese, la lingua impiegata da Mameli risulta molto moderna, ancora perfettamente comprensibile per tutti, mentre Bella Ciao si rivela l’erede di una tradizione testuale e musicale che inizia addirittura in Francia nel Quattrocento, per giungere a Venezia, passando da un dialetto all’altro per poi italianizzarsi in maniera completa nella versione che conosciamo e della quale si trovano numerose varianti, dato che l’autore o gli autori sono sconosciuti e non esiste una tradizione testuale univoca.

L’ultimo capitolo di Le Parole Valgono è dedicato all’enciclica di Papa Francesco Laudato si’, la prima intitolata con parole dalla derivazione duplice, poste in quella zona di passaggio tra il latino e l’italiano che segna la nascita della lingua della penisola. Con molta delicatezza, quasi con riserbo Della Valle e Patota segnalano l’importanza del cattolicesimo nella difesa e nella diffusione dell’italiano nel mondo, sottolineando che sono stati gli ultimi Papi, quelli stranieri, a dare un forte impulso alla italianizzazione del linguaggio della Chiesa, accogliendolo come proprio e impiegandolo come lingua d’uso comune.

di Sergio Valzania