Laicità e sacerdozio nel libro di Romano Penna

Un solo corpo

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15 settembre 2020

Chi volesse leggere l’ultimo lavoro di Romano Penna (Un solo corpo. Laicità e sacerdozio nel cristianesimo delle origini, Roma, Carocci, 2020, pagine 248, euro 23) alla luce del dibattito — spesse volte più ideologico che teologico — tra laicità e sacerdozio, e che ha animato gli ambienti ecclesiali in particolare negli ultimi mesi, farebbe un serio torto a un’opera di carattere puramente scientifico che se ne pone ampiamente e autorevolmente al di sopra. Pur non mancando, specie nella parte conclusiva, alcuni spunti di riflessione per la teologia contemporanea, lo sforzo storico ed esegetico del noto biblista si pone principalmente sul piano della ricostruzione veritiera e più affidabile del contesto della vita e del culto delle prime comunità cristiane.

Il comun dire che il cristianesimo sorge e si sviluppa in ragione della sintesi straordinaria che opera fin dalla fase apostolica tra le culture semitica ed ellenistica esce, dopo la l’avvincente lettura del libro, se non ridimensionato sicuramente relativizzato, se riferito al concetto di sacro. Piuttosto che sintesi, il cristianesimo delle origini, secondo Penna, si pone in netta distinzione e opposizione alle idee di sacralità, ritualità, sacrificio e sacerdozio proprie tanto dei greci quanto degli israeliti.

Il libro si sviluppa su quattro parti consequenziali: parte dal rapporto — di radicale novità appunto — che il cristianesimo rileva verso le altre religioni, per poi passare a una disamina dettagliata dell’idea di sacerdozio nella cultura classica greco-romana e in quella ebraica, quindi al concetto di laicità tra le comunità protocristiane, e per concludere l’idea che le stesse avevano dello status sacerdotale. Appare chiaro come non solo i protagonisti della stagione fondativa (a cominciare dai dodici) fossero tutti, e tutte, laici, ma soprattutto come fosse totalmente assente l’idea di uno status laico distinto da quello sacerdotale, almeno fino al termine del ii secolo, quando porrà le radici l’istituzionalizzazione delle comunità intorno alla figura del vescovo. Il termine “laico”, annota Penna, non compare in nessun scritto neotestamentario (e d’altronde neanche nel vetero), a testimonianza che le comunità avevano pienamente consapevolizzato l’unicità del sacerdozio in Cristo crocifisso e risorto, e anche in loro stessi, come comunità in quanto corpo mistico del Redentore, e individualmente in ragione del battesimo ricevuto.

Il sacerdozio universale implica il paradosso, rileva l’autore, che nella Chiesa non vi fosse nessun laico, perché tutti ne erano sacerdoti. Non c’è alcuna differenza sul piano per così dire ontologico, ma solo in ragione dei ministeri svolti. Che però non sono funzioni scelte dal ministro, ma derivano da un carisma, che è sempre e solo dono dello Spirito. Forse, anche se il termine non è all’epoca ancora in uso, la percezione di colui che verrà indicato come laico è riservata al membro della comunità che non è chiamato a svolgere funzioni pastorali.

La mancanza di una figura sacerdotale nei primi due secoli deriva, spiega Romano Penna, da una diversa idea di sacro, e implica un’idea altrettanto diversa di rito, sacrificio e tempio. Del tutto estranea ai lacci e lacciuoli del fariseismo da un lato e del ritualismo pagano dall’altro.

È questa radicale diversità a far maturare la percezione di cristianesimo sinonimo di libertà. E sarà proprio questa percezione a spalancargli le porte di una diffusione continentale.

di Roberto Cetera