«L’addio a Saint-Kilda», terra in capo al mondo, nel romanzo d’esordio di Eric Bulliard

Trentasei isolani verso l’ignoto

Un momento dell’evacuazione
22 settembre 2020

«Noi firmatari, nativi di Saint-Kilda, preghiamo e chiediamo rispettosamente con la presente al Governatore di Sua Maestà di darci assistenza affinché possiamo tutti lasciare la nostra isola entro quest’anno e trovare degli alloggi così come lavoro sulla terraferma di Scozia. Da molti anni, il numero di uomini e donne in età da lavoro su Hirta è calato. Oggi, la popolazione totale dell’isola non conta più di trentasei abitanti. Tra questi, molti uomini hanno preso la decisione irrevocabile di cercare impiego sulla terraferma. La loro partenza provocherà una grave crisi nella misura in cui gli adulti validi sono oggi appena abbastanza numerosi per effettuare i compiti necessari alla sopravvivenza della comunità. Attualmente, questi uomini fanno tutto sull’isola: badano alle pecore, si incaricano della tessitura e si danno da fare affinché alle vedove non manchi nulla. Se si trovassero a partire, le condizioni di vita del resto della comunità diverrebbero tali che ci sarebbe impossibile abitare sull’isola per un altro inverno. La ragione per cui sollecitiamo la vostra assistenza è la seguente: da molti anni, Saint-Kilda dipende dal mondo esterno per far fronte ai suoi bisogni e non dispone delle risorse che le permettono di migliorare la propria situazione. Da ciò, ci troviamo nella incapacità di far fronte alle incombenze che occorrerebbero per l’evacuazione nostra e dei nostri beni. Non chiediamo di ritrovarci riuniti come una comunità a parte, ma vi saremmo sinceramente riconoscenti di soccorrerci e di assicurare la nostra trasferta in un luogo in cui avremmo la possibilità di far fronte alla nostra sussistenza nelle migliori condizioni».

È con questo accorato appello che un pugno di uomini e donne chiede aiuto alle autorità scozzesi al fine di abbandonare per sempre l’isola dei propri avi, Hirta, nell’arcipelago di Saint-Kilda — il «più appartato del Regno Unito» —, in mezzo all’oceano Atlantico settentrionale, o, per meglio dire, in capo al mondo, fuori dal mondo. Siamo nel 1930 e l’evacuazione richiesta, tramite la citata lettera, si concretizza il 29 agosto dello stesso anno. Trentasei isolani si mettono, così, in viaggio verso l’ignoto.

Partendo da questa storia, che è assolutamente vera, e raccogliendo precise testimonianze e dettagliate documentazioni, il giornalista e critico letterario di Friburgo Éric Bulliard firma il suo primo romanzo, che già gli è valso i premi letterari Edouard Rod (2017), SPG (2018) e quello della fondazione Régis de Courten (2019). L’opera s’intitola L’addio a Saint-Kilda (Modena, 21lettere, 2020, traduzione di Dylan Rocknroll, pagine 192, euro 14). E, accanto ai fatti storici, coniuga il reportage giornalistico (dovuto al fatto che nell’aprile 2014 l’autore fa visita a Saint-Kilda) ad elementi di finzione, volti a ricreare quelle atmosfere, quei dialoghi, quegli stati d’animo che ai tempi, probabilmente, caratterizzarono per davvero l’isola e i suoi abitanti.

A ogni modo, non è tanto la notizia sull’evacuazione la novità di questo racconto (a tratti un po’ confusionario), quanto, più che altro, la narrazione relativa alla psicologia dei san-kildiani e dei motivi che li spinsero a prendere la decisione più importante della loro vita. Una narrazione che, pertanto, offre molteplici spunti di riflessione, fa sorgere domande e, soprattutto, interesse. Si sa che a Saint-Kilda gli abitanti non sono mai stati più di qualche decina, massimo centocinquanta nel diciottesimo secolo, e, allora, quando e come sbarcarono sull’isola i primi uomini? In che modo riuscirono a organizzarsi come comunità, senza capo né padrone, «senza legge né denaro»? Quali sentimenti, contrastanti di certo, spinsero gli isolani ad andare via? Cosa gli successe una volta raggiunto l’altro mondo?

A tali interrogativi Éric Bulliard cerca di rispondere, aiutando il lettore a risolvere i suoi enigmi e descrivendo gli isolani come gruppo preservato «dai misfatti della civilizzazione», che parla solo gaelico, che conosce la scrittura soltanto a partire dal diciannovesimo secolo e per sopravvivere pratica «la caccia agli uccelli, raramente la pesca, un po’ di agricoltura e allevamento, la filatura della lana, la raccolta e l’essicazione della torba».

Un gruppo autarchico — un po’ Utopia di Tommaso Moro, un po’ società favoleggiante che ignora il concetto stesso di società — il quale, nonostante le condizioni precarie in cui si trova, non perde mai dignità, pudore e fierezza. La decisione ultima di partire per la Scozia deriva, infatti, oltre che dal desiderio dei più giovani di conoscere ciò che esiste al di là delle rocce verticali, pure e principalmente da motivi fisiologici («riserve di cibo in calo, carenza di braccia, di tempo, di forza. E la fame», senza togliere il problema della consanguineità). Dimidiati nel profondo (la scelta è «partire o morire di fame») e ricolmi di rimorsi nei confronti dei coraggiosi antenati, i personaggi del volume vivono un conflitto interiore di non poco conto, che apre anche gli occhi su questioni attualissime quali il senso di sradicamento, di distacco, di spaesamento in riferimento alle moderne migrazioni. Nondimeno, nel corso della lettura, frutto di ulteriori considerazioni è l’atteggiamento conquistatore dell’uomo proveniente dalla «terraferma» che, da turista, fino al 1930, va a Saint-Kilda col fare altezzoso di colui il quale è in grado di insegnare a chi, da secoli, resiste alla natura selvaggia e preserva la propria identità (quanto, anche adesso, l’uomo d’Occidente si sente superiore a realtà meno sviluppate rispetto a quelle in cui vive, dimostrandosi incapace di relazionarsi autenticamente con l’altro?).

Dopo l’immersione nella Storia e in ciò che è stato, l’autore riporta, infine, chi legge al presente. Non solo grazie alle domande, collegate ai nostri tempi, che fa sorgere, ma anche perché prende spazio per raccontare l’isola nel nuovo millennio. Oggi, a Saint-Kilda — «granello di roccia» divenuto di proprietà del National Trust for Scotland, base militare, iscritta nel patrimonio Unesco e dove si trovano «ormai solo (…) due o tre archeologi e biologi, altrettanti ranger, delle pecore e delle capre e alcuni turisti intirizziti» — il tempo si è, comunque, fermato al 1930. Continua a grandeggiare la natura, «questa roccia verticale, la cui sommità si perde nella nebbia (…), attraversata da uccelli da tutte le parti (…). Gabbiani, sterne, colombe, albatros o non so che (degli uccelli bianchi, maestosi, immensi, dappertutto) fanno venire le vertigini. Della vita». Su quest’isola abbandonata appunto agli uccelli — An island abandoned to the birds, scrive il «New York Times» nel 1976 a proposito di Saint-Kilda —, dove gli alberi non sono mai cresciuti per via dei forti venti, «si sente l’infinito (…), la sua evidenza», i blu rimangono «abbaglianti» mentre i verdi «saltano al viso».

Si «conserva la memoria di questi uomini e di queste donne», che non sono fantasmi o spiriti: rappresentano, piuttosto, «il peso dei ricordi», così come racchiuso nel libro di Bulliard.

di Enrica Riera