Virtù della fortezza in fra Giuseppe Maria da Palermo

Tesoro per eccellenza essere povero per Gesù Cristo

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24 settembre 2020

Fra Giuseppe Maria da Palermo, al secolo Vincenzo Diliberto, visse solo ventidue anni (1864-1886) ma densi di doni e frutti da parte della grazia divina. Un percorso umano caratterizzato dalla profonda fede in Dio e dalla tenace fermezza che lo hanno reso una delle figure più rappresentative della spiritualità cattolica siciliana della seconda metà del XIX secolo. Rubbettino Editore (Soveria Mannelli) gli dedica il volume Vincenzo Diliberto. Fra Giuseppe Maria da Palermo ofmcap (2020, pagine 434, euro 28) scritto da un sacerdote della Chiesa palermitana, ordinario di Teologia spirituale presso lo Studio teologico San Paolo a Catania. Pubblichiamo stralci dei rilievi conclusivi.

Diliberto ha condotto una vita informata da profonda fede. I suoi discorsi, sia che si trovasse solo in cappella, o che parlasse con i compagni, sia che vivesse in seminario, o che andasse a trovare i parenti, erano sempre improntati a questo atteggiamento fondamentale dell’esistenza cristiana. Non c’era spazio per altri argomenti. Ogni occasione era buona per discorrere — come si racconta di san Domenico di Guzman — con Dio o di Dio, realizzando in questo modo l’unità nella vita spirituale. La fede avvertita ed espressa nella contemplazione del mistero eucaristico era la stessa che viveva e desiderava inoculare alle persone che incontrava.

La testimonianza più bella di questa unità di vita di fede è data dall’espressione del suo viso quando discuteva delle realtà di fede. Alcuni testimoni parlano di una vera e propria trasfigurazione del volto. Di sicuro nel giovane palermitano si realizzava quella trasparenza tra anima e corpo che fa sì che quanto vissuto interiormente traspaia naturalmente nelle fattezze fisiche. L’uomo diventa così bello, non certo dal punto di vista estetico — anche se questo può anche avvenire — quanto spiritualmente, perché, pieno di Dio, comunica la Sua bellezza. E questa bellezza, a differenza di quelle caduche e fugaci, colpisce in profondità i sensi perché testimonia e annuncia la bellezza eterna. Bellezza che Vincenzo sapeva scorgere anche nella natura, nell’osservazione del cielo, come tipico di chiunque sappia guardare con gli occhi di Dio tutto ciò che lo circonda per scoprirvi proprio la presenza del Creatore.

Anche la virtù della speranza è stata luminosa in Diliberto. Pur facendo esperienza del peccato e toccando con mano l’estrema fragilità della sua condizione umana, Vincenzo ha narrato con la propria vita che mai si deve disperare del perdono divino e sulla possibilità di essere accolti, alla fine dei tempi, al banchetto celeste. E proprio la contemplazione delle realtà future è diventata uno stimolo efficace nel giovane palermitano per leggere con le lenti adatte quanto accadeva nella storia. Non perché la storia umana in sé avesse poco senso, ma perché era la vita eterna a costituire l’appropriato punto di osservazione e di giudizio. Il guardare al di là della storia umana, il guardare ciò che ci attende — l’amore e la misericordia infinita del Padre — ha spronato il giovane palermitano a vivere già nell’hic et nunc dei rapporti interpersonali quanto percepito di Dio.

Parlare di speranza nell’aldilà ha comportato anche la relativizzazione dell’importanza dei beni temporali. Vincenzo ha vissuto con sobrietà l’uso dei beni (che non gli mancavano vista la condizione agiata della propria famiglia) a volte privandosi anche del necessario. L’amore per Dio ha certamente costituito la grande molla della vita di Vincenzo. Amare Dio per sé e fare tutto per lui — anche mettere in atto l’ingegnosa idea per adorare l’eucaristia dal gabinetto di fisica del seminario — è stato il suo, realizzato, programma di vita, dapprima a Palermo e, in seguito, a Sortino. E questo anche se, a volte, l’aridità prendeva il sopravvento nella sua esperienza di Dio.

Riguardo all’amore verso i fratelli, colpisce il prendersi cura dei propri compagni di seminario al punto che gli stessi superiori gli affidavano gli alunni più discoli perché egli, con le sue parole e il suo esempio di vita, li “convertisse”. Potremmo parlare, considerati i suoi pochi anni di vita, di esercizio di una vera e propria «fraternità spirituale». Mai poi lese l’onore dei compagni o fu occasione di scandalo e anzi sempre coprì eventuali errori da loro commessi.

In noviziato inoltre, attesa la sua preparazione religiosa, gli fu assegnata la cura dottrinale dei connovizi, come già aveva fatto con i propri compagni in seminario. Un’attenzione particolare Diliberto ha manifestato, inoltre, verso i sofferenti e i malati. Lo testimoniano le frequenti visite alla cugina gravemente ammalata Rosina, la compagnia offerta all’anziano e cieco chierico Schimicci e l’aiuto dato alla cameriera della cognata.

Vincenzo ha amato la povertà e, concretamente, i poveri. Oltre ad amare e condurre una vita povera, Diliberto ha privilegiato sempre l’esercizio pratico della povertà, elargendo sempre parte del cibo ai camerieri del Seminario arcivescovile di Palermo, facendo spesso l’elemosina ai bisognosi, andando a visitare, confortare e pulire i tanti poveri assistiti dai padri bocconisti alla Quinta Casa, e anche assistendo, novizio, gli indigenti che bussavano alla porta del convento di Sortino, offrendo loro il cibo necessario. Per questa ragione, due erano i fini della sua temperanza nell’assunzione dei cibi: mortificarsi e lasciare qualcosa in più per i poveri. Il servizio ai poveri poi nasceva dall’identificazione di questi con Gesù e anche dalla sua riflessione, testimoniata da padre Gambino, sull’uguaglianza per Dio tra ricchi e poveri, perché tutti suoi figli, e sul furto commesso dai ricchi, quando non si prendono cura di coloro che vivono nell’indigenza. Ruberia ritenuta da Vincenzo come la vera causa delle sofferenze dei poveri.

Come egli stesso ebbe modo di scrivere al padre, da Sortino, l’essere povero per Gesù Cristo rappresenta il tesoro per eccellenza perché si diventa possessori dell’unica ricchezza eterna: il Regno dei cieli. E proprio la povertà fu la motivazione della scelta dell’Ordine che più degli altri viveva una vita di povertà. Da qui la letizia provata in noviziato indossando il saio cappuccino e stando a piedi scalzi. Gioia che manifestava — egli che proveniva da un’agiata famiglia borghese — anche a padre Eugenio da Sortino, che provava con delle precise interrogazioni il suo amore per la povertà.

Un’altra caratteristica di Vincenzo è stata la fortezza, che gli ha permesso di abbattere gli ostacoli e la ritrosia degli adulti — il padre e il direttore spirituale — perché non procrastinassero ulteriormente il consenso alla sua scelta vocazionale. Tale fortezza ha costituito certamente uno dei tratti precipui della personalità di Diliberto, specialmente per tutto ciò che riguardava Dio, al punto da minacciare il padre di andar via da casa senza la sua benedizione (ricordiamo come nell’Ottocento era impensabile per un figlio non ricevere la benedizione paterna sulla scelta da operare) se egli non avesse concesso la sospirata autorizzazione per entrare nell’ordine dei Frati minori cappuccini. Diliberto ha amato teneramente il padre parlandone sempre come di un uomo religioso, ma nel momento in cui, seppur involontariamente, avrebbe potuto contrastare la sua vocazione, allora fortezza esige che al primo posto si sostituisca con l’amore verso Dio. Anche se questo dovesse far soffrire le persone care.

La fortezza di Vincenzo si è manifestata quindi nel superare i tanti ostacoli incontrati nel cammino vocazionale. Il giovane non si è arreso. Ha aspettato, a volte piangendo, che i tempi fossero maturi. Ha accettato le prove e le incomprensioni, specie dei familiari. Non ha mai smesso però di coltivare nel proprio cuore quanto avvertito interiormente.

Pur nella brevità dell’esistenza, Vincenzo ha vissuto pienamente il dinamismo dell’esperienza secondo lo Spirito, che lo ha portato alla meta desiderata: la scelta della vita religiosa. Tale scelta costituisce, pertanto, il felice approdo di un cammino iniziato presso il Collegio San Rocco, proseguito nei tre anni vissuti nel Seminario arcivescovile di Palermo e nell’esperienza solitaria a Baida. In Diliberto abbiamo, così, l’evidente manifestazione di come la vita spirituale sia un progressivo itinerario e che ogni tappa percorsa rappresenti un momento essenziale. Tale tappa, anche la più straordinaria, non va mai assolutizzata ma deve essere sempre inserita nel percorso globale della vita vissuta da un credente in Cristo, sotto la guida dello Spirito.

di Mario Torcivia