Gwendolyn Brooks, Billie Holiday e il grido del Blues

Strani frutti appesi agli alberi

Billie Holiday in una locandina degli anni Quaranta
04 settembre 2020

Nel 1950 Gwendolyn Brooks, poetessa afroamericana cresciuta leggendo i versi di Langston Hughes e James Weldon Johnson, vinse il Premio Pulitzer per la Poesia con la sua raccolta Annie Allen. Per la prima volta nella storia, un riconoscimento tanto prestigioso venne assegnato a una letterata afroamericana, conferendo visibilità e importanza ideologica e culturale anche ad altri intellettuali che, come lei, a partire dal Rinascimento di Harlem, ambivano ad affermarsi, cercando di emergere dall’angolo in cui erano stati relegati dalla società e dalla critica.

Quello della poesia afroamericana novecentesca è un mondo che si intreccia perfettamente con quello della musica: il richiamo agli schemi classici del blues nelle opere di Gwendolyn Brooks, appresi proprio da Hughes, conferma l’esistenza di un forte e puro legame tra linguaggio poetico e tradizione orale. In Queen of the Blues, la figura della cantante di blues Mame, ispirata alla celebre Ma Rainey, non è che l’incarnazione della donna afroamericana che tentava, tramite il successo sul palcoscenico, di sfuggire a una realtà di miseria e sottomissione, solitudine e discriminazione. Impossibile non pensare alle grandi interpreti, talentuose portatrici canore di quell’amara consapevolezza su cui si fondava il blues, un autentico specchio di vita del popolo afroamericano, fatto di problematiche sociali condivise, sul cui sfondo ombreggiavano le piantagioni, le fughe, le rivolte agricole, le aspettative di una rinascita economica e individuale.

Ecco allora Mamie Smith, che nella New York del 1920 registrò per la Okeh Records Crazy Blues la prima vera incisione di un blues; Bessie Smith, rabbiosa e potente voce degli amori infelici del ghetto consumati dalla povertà e dai tradimenti, con lo stile tipico dolente ed ironico del blues urbano.

Fu però Billie Holiday, la leggendaria Lady Day, proveniente dal gospel, ossia dall’area rurale e religiosa del canto, a segnare, alla fine degli anni Trenta il passaggio definitivo dal country blues al blues jazzistico, rivestendolo di intensa drammaticità. Nei club newyorkesi risuonava la voce di Billie, il pianto straziante di una vita segnata dalla violenza, «un fiore avvizzito su uno stelo spezzato», uno spirito bluesly ribelle e tormentato che raggiunse l’apice con Strange Fruit. Nel 1939 il giovane insegnante Lewis Allan, pseudonimo di Abel Meeropol, le fece leggere una sua poesia, Bitter Fruit, in cui egli stesso denunciava il sempre più esteso odio razziale nei confronti degli afroamericani, liberi sì dalla schiavitù, ma rimasti mezzadri sfruttati, oppressi e isolati, soprattutto nel profondo Sud, dove la fame e le mortificazioni erano più vive che mai.

I corpi martoriati dal linciaggio e impiccati venivano lasciati dondolare sui rami degli alberi, a marcire al sole, come degli strani frutti in balìa dei corvi, senza pietà alcuna. Lady Day, dall’anima lacerata, ne rimase tanto colpita da farla visceralmente sua, avvalendosi dell’aiuto del pianista Sonny White. Nonostante il rifiuto iniziale delle radio e delle case discografiche dell’epoca, vista la tematica considerata spinosa, il coraggio non l'abbandonò: riuscì a cantare Strange Fruit per la prima volta al Café Society, dinanzi ad un pubblico ammutolito, con l’iconica gardenia bianca tra gli scuri capelli. Anche la poesia di Arna Bontemps, Gli albeggiatori, rimanda audacemente a quei pioppi dell’orrore, appesantiti dalla morte ingiusta e atroce, dove ormai il seme dell’ostilità stava dando i frutti di un tragico raccolto.

Eppure la speranza di una nuova alba nell’America razzista rimase comunque vivida in Bontemps, così come il bisogno di pace; gli afroamericani, vittime innocenti di una società che ferocemente li malediva, resistevano in vari modi, il più delle volte subendo mestamente i maltrattamenti. Come l’albero della croce, simbolo del sacrificio di Cristo, non solo immagine di dolore e calvario, ma anche di amore e salvezza, i pioppi dai quali ciondolavano i corpi impiccati si evolvono, nella strofa finale, in una rinascita luminosa, nel segno di una liberazione auspicata di fronte a una superba e cruda manifestazione di potere. Malgrado infatti la segregazione e l’esclusione, in Eppure mi meraviglio, componimento del 1925 di Countee Cullen, altro autorevole esponente del movimento di Harlem, Dio, con la sua infinita bontà, lascia in dono la poesia all’afroamericano sofferente, elevandolo, porgendogli così il mezzo per potersi finalmente esprimere.

L’autore, pervaso da un’intima meraviglia, constata quanto le azioni amorevoli di Dio non siano fatte per l’umana comprensione: la risoluzione del paradosso di essere nero e poeta insieme, è affidata solo al Signore. Le idilliache e profumate campagne del Sud non erano che silenziose testimoni di sangue e disprezzo, ma nel Delta del Mississippi, la culla del blues, la musica nel frattempo continuava a scorrere nella terra, nei fiumi antichi, nell’umile lamento di un popolo esasperato, privato perfino dei diritti civili. Il termine blues fu una trovata commerciale dei produttori discografici, è vero, la cui paternità venne rivendicata da William Christopher Handy, che nel 1912 pubblicò Memphis Blues, ma non bisogna dimenticare che il blues nacque in primis per trasmettere, in modo istintivo, emozioni attraverso la voce, sulla scia dei canti di lavoro collettivi improvvisati dagli schiavi africani, di cui mantenne la struttura call-and-response, e la chitarra, valido sostegno strumentale al tono triste e malinconico.

Un blues definito da Hughes, nel 1925, dolce, sgorgato dall’anima, “stanco”, ma non rassegnato, benché ci fosse una sconfitta sociale e morale in atto: lo stesso di Gwendolyn Brooks, capace di squarciare, nella sua poetica libera, colma di ansia vitale, il penoso e caduco fluire dell’esistenza.

di Marta D'Ambrosio