La musica come percorso di riabilitazione

Storia di Giorgio

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10 settembre 2020

Il brutale assassinio di Willy, il ragazzo di ventun anni massacrato di botte da alcuni ragazzi poco più vecchi di lui, cresciuti con la violenza e la sopraffazione come ideale di vita e che oggi rischiano lunghi anni di carcere, è una storia che sta scuotendo la coscienza e la sensibilità di tutti ed è difficile mantenersi freddi e calmi. Questa storia me ne fa venire in mente un’altra che ho vissuto in prima persona che parla di carcere... e di musica, che forse potrebbe gettare una luce di speranza in tutto questo buio.

Un po’ di anni fa don Bruno, un amico prete che assisteva spiritualmente i carcerati di Rebibbia, organizzò un concerto dei Modena City Ramblers, gruppo in cui suono, all’interno del penitenziario. È un carcere per lunghe detenzioni, per ergastolani. Entrarci dà subito la sensazione di essere in un altro mondo, in un universo parallelo. Avremmo diviso il palco con una band formata da carcerati, i Presi per caso, che naturalmente nel corso degli anni ha cambiato spesso la formazione. Un bellissimo progetto di riabilitazione carceraria. Uno dei cantanti si chiamava Giorgio Capece, pluriergastolano, da vent’anni rinchiuso “al gabbio”. Grande amante di Califano, lo ricordava per la voce abbrocata, ed era una persona evidentemente carismatica, affabulatrice. Ci raccontò come e perché era dentro da così tanti anni, con quella enfasi un po’ grottesca di chi sa di aver vissuto una vita al limite. O di averlo passato più volte. Un personaggio perfetto per un film. Ma era sicuramente pentito, aveva trovato nella musica, nella musica del suo idolo anch’egli un po’ grottesco e al limite, un motivo di un leggero riscatto sociale. L’emozione che traspariva mentre cantava davanti a noi e a un pubblico evidentemente costretto e un po’ annoiato, era incredibile e un po’ contagiosa. Si emozionò al limite del pianto, e ci raccontò che l’unica cosa oltre alla musica che lo teneva in vita era la possibilità da lì a qualche anno di uscire e poter vedere ogni giorno la nipotina. Era stato un assassino, in Italia e in Sud America. Ma mentre raccontava le sue imprese criminali si capiva che non c’era odio per le vittime, era una questione di soldi, rapine, droga. E non aveva rabbia per chi l’aveva messo dentro, non c’era disprezzo. Erano sentimenti che provava più per se stesso. Aveva accettato la sua condizione di criminale. E non accusava nessuno, i genitori, lo stato, il quartiere malfamato, il lavoro che non si trovava. Nessuna scusa per quello che aveva fatto. Ma il riscatto come persona quello sì, lo aveva cercato, e con quello il rispetto degli altri. Dopo anni abbiamo chiesto notizie di Giorgio Capece, la leggenda dice che poco tempo dopo essere uscito avesse aperto un ristorante ma che pochi mesi dopo è morto per un cancro. I suoi “compagni” di band hanno organizzato, anni dopo, un concerto dedicandolo a «Giorgio, uomo finalmente libero». La musica lo aveva aiutato ad aver rispetto per se stesso. E forse anche per gli altri.

di Franco D’Aniello