A colloquio con padre Armel Cresus Fakeye, «mistico in versi» francescano

Solchi fioriti di stelle

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09 settembre 2020

«Dietro l’architrave di ogni incontro / si nasconde / il mormorio dell’insolito / Come un inno di ringraziamento e di meraviglia», si legge in una delle poesie più belle di padre Armel Cresus Fakeye, mistico in versi, francescano di abito e di cuore. La porta di ogni incontro spalanca possibilità inedite, perché si affaccia sull’immensa fantasia di Dio. La terra, la vita quotidiana, la materia apparentemente più piatta e banale che sostanzia il nostro tempo nasconde una luce imprevista. Non a caso il suo ultimo libro si intitola Solchi stellati (Viterbo, Casa Editrice Serena, 2020, pagine 128, euro 15) e una delle sue citazioni preferite è il consiglio in versi di Rabindranath Tagore «non piangere mai perché hai perso di vista il sole, le lacrime ti impediranno di vedere le stelle». Padre Armel viene dal Benin, e ha ancora negli occhi la struggente bellezza delle albe sul Lago Nokouè cantate da Angélique Kidjo. La natura parla, ripete padre Fakeye nei suoi versi, tutte le cose brulicano del «mormorio dell’insolito». La natura loda il suo Creatore con la sua stessa esistenza, come scriveva, tanti secoli fa, il figlio di un mercante stoffe da un borgo rurale dell’Italia centrale. Un ragazzo come tanti altri, Francesco di Bernardone, che decise di prendere sul serio le domande che sentiva sgorgare dentro. Da quel momento, niente fu più come prima. Il Cantico delle creature continua a inanellare le sue strofe anche in questo scorcio di ventunesimo secolo, con altre voci, provenienti da altre latitudini, ma con la stessa profonda, intima gratitudine distillata in canto. Anche una semplice intervista può essere «un’occasione per rendere più visibile e dare più vita e soffio alla poesia», Visitazione misteriosa e imprevedibile, dono impossibile da progettare a tavolino perché «scrivere per me — ribadisce padre Armel — è sempre un avvenimento, un evento inaspettato».

Ha scritto più volte, nei suoi libri, che tutto è cambiato nella sua vita da quando è stato conquistato da Donna Poesia. Un amore che riserva sempre nuove scoperte...

Risalendo nella storia della letteratura in modo generale, è evidente che la poesia è la figlia maggiore della letteratura, soprattutto nella sua espressione orale. Partendo da questa considerazione, la poesia si rivela a me sempre come un rapimento, anzi più come un innamorarsi che un innamoramento. Innamorarsi, perché accade una relazione in cui l’essenziale è il protagonista. Questa esperienza tanto bella quanto affascinante non si riduce ad un sentimentalismo, e nemmeno ad un romanticismo, ma sorge dalla celebrazione delle nozze dell’ispirazione. Per scrivere poesia e perdurare in quest’avventura si stringe un’alleanza tra due persone. Quest’alleanza la chiamo «la conquista da parte di Donna Poesia». Donna Poesia è stata sempre per me una compagna. E. in un certo senso, parossismo del viaggio poetico è immagine della sinergia profonda che c’è tra il maschio e la femmina. Ogni poesia è incrocio di genere, di razze.

Che cosa la rende felice quando scrive?

Una caratteristica del poeta è la libertà. Quando l’emozione, la parola, i sentimenti vengono imprigionati dallo sguardo esteriore, la bellezza creativa viene meno. Scrivevo nella poesia L’allegria umana che «la gioia non è un volto perfetto, senza rughe né flagellazioni, abbozzando la storia di un’umanità coccolata e priva di sacrifici», la felicità è nell’essere. Quindi ogni volta che scrivendo riesco a dire l’essere sono felice, ogni volta che scrivendo esprimo una ferita e che alla fine trova guarigione sono felice, ogni volta che la mia poesia si fa strada nella quotidianità, sono felice, ogni volta che per esempio parlando del vino, oppure di una realtà banale, trasporto lo sguardo, l’immaginazione, l’ispirazione del lettore al di là di quell’immagine per contemplare la vite, il lavoro dietro il vino, il gusto del vino, la fatica degli operai, la raccolta, sono felice. E ogni volta che la mia poesia dice l’inaudito sono nell’allegria. La felicità completa è quando ogni poesia mia si trasforma in un ambone itinerante. Quando tutto questo non emerge ne sono rattristato. C’è un regno del mio cuore che la poesia non riesce a penetrare. C’è la poesia declamata, c’è la poesia scritta, ma ci sono anche tante poesie mute.

Qui in Italia, forse ci sono più poeti che lettori. Di chi è la responsabilità, secondo lei, di questa diffusa “disattenzione”?

Senza cercare di incolpare qualcuno, direi semplicemente che la sua osservazione traduce le priorità odierne della nostra umanità, ma anche le sue malattie. Un’umanità strappata via dalla sua esistenza, dal senso della sosta, della meraviglia, dell’attesa, dell’inaspettato, del ringraziamento, non può che diventare nemica della poesia. Tanto è vero che, arrivati a questo punto della nostra storia, leggere e capire la poesia ci appare come un’impresa assurda. La poesia è nata raccontando il quotidiano. Fuori della realtà umana, non c’è più poesia. Credo che abbiamo, ad un certo momento, perso questo. È purtroppo una realtà generale anche da me, nel mio Paese. Mentre facevo la promozione del mio primo libro in francese: Les Confidences d’un prêtre, de roses et d’espérance, un editore francese ha fatto i complimenti alla casa editrice che ha accettato di pubblicare la mia opera, dicendo che oggi nessuno vuole parlare di poesia. L’industria del libro ha fatto una scelta ben precisa, i romanzi vengono finanziati più facilmente rispetto alla poesia. Tuttavia, affermo con Victor Hugo che la poesia sarà sempre quella stella che conduce i re, i pastori, ogni essere umano alla trascendenza, a Dio. Desidero sperare in una rinascita della poesia. Paragonando la realtà qui in Italia al mio Paese, direi che si legge ancora tanto. Però scavando più in profondità, si direbbe che la lettura risulta meno appassionante di come era in passato. Che cosa si legge oggi? Occorre dare in famiglia più spazio al libro. Mi ricordo che da bambino ero iscritto alla biblioteca e ci andavo per leggere. Quando ero piccolo, i regali, spesso, erano libri. A scuola, gli insegnanti erano talmente appassionati di letteratura che ci trasmettevano la loro passione. Da piccolissimi, quando era l’ora di andare a nanna, eravamo cullati dalla lettura. Dubito che si facciano ancora queste cose oggi. Bisogna inventare una nuova cultura della lettura, come celebrazioni in famiglia, una cultura che si rende presente e visibile in tutti gli ambiti della nostra vita. La nostra letteratura dovrebbe essere più semplice. Non intendo né banale né triviale: semplice. La letteratura che rispecchia il vissuto non lascia indifferente.

Dal fascino di uno sguardo umano (nel suo ultimo libro cita l’«èloge du regard» di Lucrèce André) alla scoperta dello sguardo di Dio...

L’aneddoto che mi viene subito in mente risale alla mia infanzia. Quando ero piccolo dicevo ai genitori vedendo un sacerdote in tv (monsignor Isidore De Souza) che volevo essere sacerdote come lui. Ero talmente preso che a casa con gli amici organizzavo delle scenette per mimare una celebrazione eucaristica con pure la distribuzione della comunione. Ed eccomi adesso sacerdote. Anche se sono cresciuto in una famiglia cristiana, la mia fede si è radicata in Dio gradualmente. Uno dei mei ricordi preferiti riguarda l’esperienza vera e viva che ho fatto della parola di Dio soprattutto, Matteo 6, 33: «Cercate il regno dei cieli e la sua giustizia e tutte queste cose si saranno date in aggiunta». Nel 2013, sette anni fa, ero preso da tante cose. Dovevo accompagnare spiritualmente tante persone, pregare per loro e facevo fatica a dedicare il tempo dovuto agli studi. Non ce la facevo più. Avevo sia la tentazione di tralasciare questi impegni e che di trascurare l’impegno degli studi. In preghiera, ho chiesto a Dio come fare, e dentro di me ho ricevuto come risposta quel versetto, Matteo 6, 33. Vi posso assicurare che quel periodo è stato il momento in cui ho avuto meno tempo materiale per studiare, ma i voti più alti li ho avuti proprio quell’anno. Ed è ancora così.

di Silvia Guidi