Pensieri sparsi ascoltando «Sì, viaggiare» di Battisti e Mogol

Quel “Gran Genio” del suo amico

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25 settembre 2020

A causa della pandemia la mia parrocchia sta cambiando. La gente ha paura del coronavirus, nonostante sia garantito il rispetto delle norme previste per le assemblee liturgiche. Aumentano i funerali mentre l’amministrazione dei sacramenti coinvolge uno sparuto gruppo di persone; e il cuore di sacerdote si appesantisce, sapendo di dover affrontare con animo forte e sereno il presente, in attesa di tornare alla normalità.

Una sera d’inizio estate, dopo le esequie di un’anziana donna, ascoltai un vecchio disco di Lucio Battisti perché la musica riconcilia con Dio e con il mondo. L’animo era appesantito dal dolore intravisto dietro le mascherine dei fedeli in chiesa, tra l’imbarazzo di gente che non sa più quando stare in piedi o mettersi seduta durante la messa. Segno d’una disaffezione alla liturgia in una comunità dove comunque la religiosità è ben radicata. Aumentano i poveri e i cosiddetti “lontani”, una categoria indifferente alla vita della Chiesa. Mentre poggiavo quel vinile sul giradischi, mi rimproveravo di non aver fatto abbastanza per quelli rimasti fuori dal gregge. In che modo recuperare le pecore perdute, cosa fare? In quel buio pesto, aprì un pertugio il verso della canzone Sì, viaggiare: «Quel gran genio del mio amico, lui saprebbe cosa fare, lui saprebbe come aggiustare, con un cacciavite in mano fa miracoli». Ebbi un sussulto. Rimisi la puntina del giradischi su quel solco, come se avessi ricevuto un messaggio, un sostegno, un segnale dall’alto. Quel gran genio del mio amico era Dio. Il testo così assunse un significato più profondo, esprime infatti la fiducia in Dio Padre in un percorso non privo di ostacoli, di ombre e di fallimenti. Quel cacciavite in mano potrei essere io; un sacerdote, che è un altro Cristo, proprio per questo è anche uno strumento nelle mani del Signore per la salvezza del popolo, anche se la gente non lo capisce.

Un cacciavite sembra poco ma può essere molto nelle mani buone, geniali. Ciò dona consolazione come ebbe a dire Joseph Ratzinger appena eletto Papa affacciandosi alla loggia di San Pietro presentandosi come Benedetto XVI: «Mi consola il fatto che il Signore sa lavorare ed agire anche con strumenti insufficienti».

Il verso seguente ridona vigore al cammino: «Ti regolerebbe il minimo alzandolo un po’. E non picchieresti in testa così forte, no. E potresti ripartire, certamente non volare, ma viaggiare». Nel Salmo 83 al verso 6 è beato chi trova nel Signore la sua forza e decide il santo viaggio. Siamo pellegrini terragni, poco propensi al volo, ma in ascesa verso le tende eterne dove il Signore ci accoglierà. Intanto bisogna viverla questa esistenza, specie quando il viaggio diventa insopportabile, come è scritto nel libro dei Numeri: «In quei giorni, il popolo non sopportò il viaggio». Allora cosa serve? La canzone di Battisti viene in aiuto: «Sì, viaggiare… senza per questo cadere nelle tue paure, gentilmente senza fumo con amore». Con desiderio, amando il luogo, le persone e la missione che il Signore mi ha affidato, non lasciandomi paralizzare dallo spavento per le cadute.

Bisogna vivere la vita con ritmo fluente e «senza strappi al motore», sperando anche nel dubbio della fede. Sicuri della meta da raggiungere, camminare di notte «con i fari illuminare chiaramente la strada per saper dove andare». I due fari che ci fanno strada nella selva oscura sono i sacramenti e la Parola di Dio, mezzi di salvezza personale e comunitaria, perché non mi salvo da solo, perché ho bisogno di qualcuno che mi aiuti. La canzone Sì, viaggiare ricorda che quell’amico geniale non esita a sporcarsi le mani per pulire il motore (il cuore) ingolfato dai peccati, scongiurandone la fine: «Quel gran genio del mio amico, con le mani sporche d’olio. Capirebbe molto meglio, meglio certo di buttare, riparare, pulirebbe forse il filtro».

I versi centrali del testo scritto da Mogol spiegano una canzone apparentemente semplice e leggera: «Scinderesti poi la gente, quella chiara dalla no e potresti ripartire, certamente non volare ma viaggiare». Occorre vigilare, discernere, «evitando le buche più dure» e senza mai rallentare la corsa, allontanando la tentazione di fermarsi prima d’aver raggiunto il traguardo desiderato. Il male e i nemici ostacolano il cammino invece inarrestabile di noi viandanti vocati al santo viaggio e destinati al Paradiso. Lo ricorda la poesia A Galla di Eugenio Montale: «E senti allora, se pure ti ripetono che puoi fermarti a mezza via o in alto mare, che non c’è sosta per noi, ma strada, ancora strada, e che il cammino è sempre da ricominciare».

Un giovane amico, la sera stessa, mi telefonò comunicandomi l’intenzione di sposarsi, nonostante l’emergenza sanitaria in atto. Mi chiese di benedire le sue nozze. Piansi dalla felicità, ero disabituato a gioie simili. In attesa del giorno previsto, pensai a cosa dire agli invitati che forse non sapranno quando sarà il momento di stare in ginocchio durante la messa. Come far intendere il senso del sacramento del matrimonio? L’ispirazione arrivò ascoltando un’altra canzone di Battisti, dello stesso album, Amarsi un po’ cioè un poco alla volta, nell’accoglienza reciproca e nella pazienza, per l’eternità. Decisi così di consegnare agli sposi le parole di quella canzone, parlando per la prima volta di musica da un ambone, dopo tanti anni di sacerdozio. Un rischio e una debolezza che il Signore ha tollerato, serviva per far capire con un linguaggio nuovo la grazia che è sottesa in ogni sacramento.

di Massimo Granieri