DANTE E I PAPI - VI
Nell’enciclica «In praeclara» di Benedetto XV, la prima dedicata a Dante nella storia del papato contemporaneo

Politico cioè cristiano

Venturino Venturi, «Divina Commedia» (1984, particolare)
12 settembre 2020


Se considerassimo in prospettiva hegeliana il dantismo di Leone XIII, Pio X e Benedetto XV, potremmo forse affermare che, mirabilmente, il dantismo di Benedetto costituisce la sintesi dei due precedenti dantismi, così come l’enciclica In praeclara summorum litterarum artiumque saeculo sexto exeunte ab obitu Dantis  Aligherii, la prima dedicata a Dante nella storia del papato contemporaneo, efficacemente dimostra. Da una parte Giacomo Paolo Giovanni Battista della Chiesa eredita la prospettiva culturale di Papa Leone, in cui il dantismo è la chiave d’ingresso per intervenire nel dibattito politico e sociale della seconda metà dell’Ottocento, dall’altra è ben salda la continuità con Pio X, per il quale la teologia della Commedia, stante l’ortodossia di Dante, si intreccia alla Vulgata del catechismo.

Non è certo un caso che nell’enciclica In praeclara le opere dantesche più citate siano Monarchia, Epistolae e Convivio, cioè le opere riguardanti il pensiero politico, filosofico e, conseguentemente, teologico, di Dante. Benedetto XV ne coglie la concreta e reale attualità, soprattutto relativa al momento storico in cui è inserito il suo magistero pontificale. Si consideri la sua formazione: dopo i corsi di teologia alla Gregoriana, ebbe gli ordini sacri il 21 dicembre 1878, laureandosi all’Accademia dei nobili ecclesiastici nel 1880. L’anno dopo conobbe, divenendone collaboratore, Mariano Rampolla del Tindaro, segretario della Congregazione degli affari straordinari, interprete e realizzatore della politica di Leone XIII, tesa a restituire alla Santa Sede una posizione di prestigio e di autorevolezza mondiale. Quando Rampolla divenne cardinale (marzo 1887) e, due mesi dopo, segretario di Stato, il Della Chiesa divenne minutante della Segreteria di Stato. In tale contesto il futuro Papa Benedetto ebbe modo di sviluppare e accrescere la sua sensibilità giuridica e storica e la sua prospettiva politica e diplomatica, non disgiunte dal suo quotidiano cammino spirituale. Infatti, secondo la testimonianza del padre Ehrle, prefetto della Biblioteca Vaticana, Giacomo della Chiesa, dopo il lavoro alla Segreteria di Stato si recava in chiesa, faceva per alcune ore la sua adorazione e, poco dopo la mezzanotte, celebrava la santa messa. Dopo la morte di Papa Leone, il 16 dicembre 1907, Pio X lo nominò arcivescovo di Bologna e il 25 maggio 1914 fu compreso tra i cardinali del suo ultimo concistoro. Il 3 settembre dello stesso anno, anno dello scoppio della prima guerra mondiale, dopo la morte di Pio X, Giacomo della Chiesa è eletto Papa. Sceglie il nome di Benedetto, riferendosi esplicitamente all’opera e alla personalità di Benedetto XIV, Prospero Lambertini (1740-1758), grande protettore di artisti e scienziati, convinto, in tempi non sospetti, che il potere temporale della Chiesa era destinato a finire. Appena eletto, Benedetto chiama alla Segreteria di Stato il cardinale Domenico Ferrata e, dopo la sua morte, il cardinale Pietro Gasparri, autore del Codex iuris canonici (1917), giurista e diplomatico di eccelso valore e alunno di Papa Leone, che diviene suo stretto collaboratore.

La prospettiva politica che Benedetto XV assunse e mantenne nel corso del conflitto mondiale, all’interno della quale il suo dantismo gioca un ruolo di primo piano, è già chiaramente delineata nella prima enciclica Ad Beatissimi apostolorum principis (1 novembre 1914), in cui il Papa individua le cause della guerra: «La mancanza di mutuo amore fra gli uomini; il disprezzo dell’autorità; i beni materiali, fatti unico obiettivo dell’attività dell’uomo», opponendovi le norme e le pratiche della saggezza cristiana. Benedetto si pone, in nome della Pace tra i popoli, al di sopra delle parti belligeranti, contro gli egoismi nazionalistici, dovuti essenzialmente ai fini economici di una società scristianizzata. Stessa prospettiva, in qualche modo anticipatrice della Conciliazione del 1929, il Papa avrà nei tentativi, andati a vuoto per l’opposizione di re Vittorio Emanuele III, di risolvere la questione romana. L’esasperato laicismo caratterizzante gli anni del papato di Leone e Pio connota anche il papato di Benedetto, negli anni che precedono le celebrazioni del sesto centenario della morte di Dante: nella città di Ravenna addirittura erano nati due diversi comitati, uno laico e l’altro cattolico. Quest’ultimo, presieduto dall’arcivescovo Pasquale Morganti, fu fondato nel 1913, sotto gli auspici di Pio X, che sostenne fortemente l’iniziativa. Già da cardinale Giacomo della Chiesa era stato membro onorario della presidenza del Comitato ravennate. Eletto Papa, stabilirà un filo diretto con monsignor Giovanni Mesini, segretario del Comitato, per appoggiarne tutte le iniziative, economiche e culturali, già avviate da Papa Pio.

In coincidenza con l’inizio del papato e della prima guerra mondiale comincia le sue pubblicazioni la rivista ravennate «Il sesto centenario dantesco (Bollettino del Comitato cattolico per l’omaggio a Dante Alighieri): riflessione morale ed esperienza estetica». Al primo numero fu allegato un Proclama che, citando le affermazioni di Leone e Pio, rivendicava a Dante e alla Divina Commedia il valore di testimonianza della «religione nostra». Il periodico si propose di contribuire alla diffusione della dantistica tra i cattolici, illustrare la dottrina cattolica nella Commedia e nelle altre opere di Dante e dimostrare che l’unità dell’opera dantesca deriva dal pensiero religioso che la domina. Tali linee-guida rimasero costanti negli otto anni della rivista e si articolarono in una serie di rubriche fisse, tese all’approfondimento del pensiero teologico, filosofico, pedagogico e morale dell’Alighieri, ma senza dimenticare la peculiare componente estetica ed artistica della sua opera e il suo personale rapporto con i santi. L’iniziativa fu consacrata da un Breve di Benedetto XV, inserendosi in un ben definito progetto culturale. Contro lo sfacelo morale, etico e politico dell’Europa era necessario rileggere il messaggio di Dante, esaltando la sua fede, per educare la società che sarebbe sopravvissuta alla guerra. Codesto progetto culturale, che si dipana in tutto il pontificato di Benedetto, affianca Dante alla commemorazione di santi e sante, esempi di vita cristiana, per un rinnovato incontro tra cattolicesimo e mondo contemporaneo: da Margherita Maria Alacoque, (bolla Ecclesia consuetudo, il 13 maggio 1920), a Domenico da Guzman, (enciclica Fausto appetente, 29 giugno 1921). Senza dimenticare Bonifacio, Giovanna d’Arco, Girolamo, Efrem il Siro, Francesco d’Assisi (con l’enciclica Sacra propediem, 6 gennaio 1921).

Sono le tappe di un itinerarium che culmina con l’enciclica dantesca In praeclara summorum del 30 aprile 1921. In essa sembrano confluire tutti i temi dibattuti dal periodico del Comitato ravennate: il filtro pedagogico, emerso nelle riflessioni di padre Ferdinando Cento, che vede nel rapporto Virgilio-Dante l’unità spirituale tra educando ed educatore teso alla conversione di quest’ultimo, presente nell’enciclica sia nella dedica «Ai diletti figli professori ed alunni degli Istituti letterari e di alta cultura del mondo cattolico» sia all’interno del testo: «Noi riteniamo che gli insegnamenti lasciatici da Dante in tutte le sue opere, ma specialmente nel suo triplice carme, possano servire quale validissima guida per gli uomini del nostro tempo»; l’interpretazione filosofica della Commedia, all’interno del rapporto Dante-Tommaso d’Aquino, «Dante, in mezzo alle varie correnti del pensiero si fece discepolo del principe della Scolastica Tommaso d’Aquino e dalla sua mente angelica attinse quasi tutte le sue cognizioni filosofiche e teologiche»; il riconoscimento della peculiarità della teologia dantesca, «Tutta la sua Commedia (…) ad altro fine non mira se non a glorificare la giustizia e la provvidenza di Dio, che governa il mondo nel tempo e nell’eternità».

Ma l’aspetto più interessante dell’enciclica In praeclara è l’affermazione che l’ortodossia di Dante, la sua appartenenza alla Chiesa cattolica deriva proprio dal suo pensiero politico, così strumentalizzato, in chiave anticlericale, dai laicisti: «Dunque egli definisce la Chiesa Romana quale Madre piissima o Sposa del Crocifisso, e Pietro quale giudice infallibile della verità rivelata da Dio, cui è dovuta da tutti assoluta sottomissione in materia di fede e di comportamento ai fini della salvezza eterna. Pertanto, quantunque ritenga che la dignità dell’Imperatore venga direttamente da Dio, tuttavia egli dichiara che “questa verità non va intesa così strettamente che il Principe Romano non si sottometta in qualche caso al Pontefice Romano, in quanto la felicità terrena è in un certo modo subordinata alla felicità eterna” (Monarchia, III, 16). Principio davvero ottimo e sapiente, che se fosse fedelmente osservato anche oggi recherebbe certamente copiosi frutti di prosperità agli Stati».

Il dantismo di Benedetto XV è specchio di tutto il suo operato di Papa e della sua battaglia per la pace prima durante e dopo la prima guerra mondiale: «Avendo egli basato su questi saldi principi religiosi tutta la struttura del suo poema, non stupisce se in esso si riscontra un vero tesoro di dottrina cattolica; cioè non solo il succo della filosofia e della teologia cristiana, ma anche il compendio delle leggi divine che devono presiedere all’ordinamento ed all’amministrazione degli Stati».

di Gabriella M. Di Paola Dollorenzo