LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
La tutela del lavoro e un capitalismo responsabile erano già necessari prima della crisi

Per una nuova democrazia economica serve dare seguito alle promesse

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10 settembre 2020

La grave recessione economica indotta dalla pandemia da coronavirus — con disoccupazione, precarietà e inattività elevatissime — fa avanzare esigenze nuove di “democrazia economica”, di rapporti più democratici capitale-lavoro anche all’interno delle imprese. Nei mesi precedenti l’arrivo del coronavirus alcune strutture del responsible capitalism si erano pronunziate in favore di un drastico rinnovamento. Nell’agosto 2019 l’America’s Business Roundtable (associazione dei Ceo delle più grandi e potenti corporations americane) aveva lanciato sul «Washington Post» un manifesto proclamante l’abbandono della teoria della shareholders value (il primato della massimizzazione del valore per l’azionista, cardine del neoliberismo) e mercoledì 18 settembre 2019 lo stesso «Financial Times» aveva intitolato così a tutta pagina la sua copertina: «Capitalism. Time For A Reset». Nel febbraio del 2020 il Forum di Davos aveva inneggiato al “mai più profitti senza etica” e celebrato una narrazione per cui i problemi ambientali e sociali, con in testa quello della diseguaglianza, li avrebbero affrontati e risolti i capitali privati. Ma ora solo lo Stato, le istituzioni pubbliche e le associazioni del volontariato — con tutti i loro limiti e le loro contraddizioni — appaiono attive sul campo e anche le poche grandi multinazionali (digitali) autonomamente in gioco sembrano più interessate a consolidare il loro già notevole potere che non a cimentarsi con le loro promesse: la riforma del capitalismo, il superamento delle diseguaglianze, uno sviluppo sostenibile. Sembra prevalere una classica “miopia capitalistica”. Eppure, lo Stato e le istituzioni pubbliche — che dovranno riorganizzarsi in modo drastico e dotarsi di una “capacità progettuale” radicale per fare fronte agli immani compiti richiesti dalla complessità di una sommatoria di fattori di crisi senza precedenti — non possono farcela se a loro volta mercati, imprese, sindacati non si rinnovano profondamente, non si mobilitano il protagonismo delle forze sociali e della società civile, una “borghesia illuminata”, imprenditori disponibili al democratic stakeholding, una “piccola borghesia” sempre più minacciata.

Per recuperare slancio occorre un approccio più alto alle questioni della “democrazia economica”, un approccio che ne sottolinei il fondamento “neo-umanistico” che le imprime la tragedia del covid-19 e ne sveli il carattere non solo economico ma profondamente etico-politico, sollecitato dai grandi sommovimenti in corso, per alcuni dei quali, per esempio nel caso dell’intelligenza artificiale, c’è chi paventa che acquisiscano “il volto del nuovo antiumanesimo”. Se anche le drammatiche problematiche ecologiche e ambientali — dalle quali scorgiamo che è messa a repentaglio la sopravvivenza del pianeta — ci spingono a riscoprire una più profonda dimensione morale, fondata su una nuova presa di coscienza globale, vuol dire che il carattere accentuatamente etico-politico dei sommovimenti in corso chiama in causa in modo non banale la dimensione dei valori: da una parte dà alla denunzia dei guasti sociali e politici un forte significato morale, dall’altra dà alla moralità un elevato contenuto critico. L’agire morale si presenta tout court come “un agire critico”. È significativo che recenti importanti prese di posizioni da un lato colleghino strettamente le questioni della democrazia economica a quelle sul futuro del capitalismo, dall’altro declinino la riflessione sul capitalismo in termini di interrogativi sulla sua moralità. Si va dalle domande sul “fondamento etico lacerato” del capitalismo di Collier all’esigenza di liberazione dal “fondamentalismo di mercato” affidata a un “capitalismo progressista” di Stiglitz, all’esplicita volontà di ricostruzione delle “basi normative” del capitalismo di filosofe come Nancy Fraser e Rahel Jaeggi, le quali sostengono che nessuna pratica economica è neutrale, e pertanto scissa dalla normatività, e il capitalismo non va visto come semplice sistema economico ma come “ordine sociale istituzionalizzato”.

Solo un approccio alto alla “democrazia economica” è in grado di interagire con gli straordinari cambiamenti strutturali in corso, accentuati dalla devastante vicenda del coronavirus: turbolenza dei mercati azionari e finanziari, oscillazioni nei prezzi delle commodities, andamenti erratici delle valute, Paesi emergenti sempre più in difficoltà, crescita europea anemica anche in assenza di epidemie ma tanto più gravata da disoccupazione e da deficit gravissimi di investimenti, pubblici e privati, a fronte di shock pandemici, per fronteggiare i quali non a caso ora l’Europa compie una svolta rivoluzionaria con il Recovery e il Next Generation Eu Plan. Se i fenomeni più importanti su cui concentrare l’attenzione erano, già prima dell’arrivo del coronavirus, il crollo degli investimenti e l’elevata disoccupazione (tuttavia accompagnata da declino della produttività), è per traguardare tutte le energie verso la costruzione di un nuovo modello di sviluppo — dando la priorità alla riconversione ecologica, alla domanda interna, ai consumi collettivi, ai bisogni sociali insoddisfatti — che diventa impellente la necessità di rianimare la riflessione e l’iniziativa sulla “democrazia economica”. Il terreno della “democrazia economica”, infatti, può palesarsi come un’arena possibile di neo-umanesimo, nella quale mostrare — come fa Papa Francesco, il Papa che ha definito il neoliberismo “l’economia che uccide” e che grida “non reddito ma lavoro per tutti” — una persistente forte sensibilità al binomio lavoro/persona, facendo uscire il lavoro dall’invisibilità, politica, ma anche teorica e analitica, in cui da decenni è caduto e tornando a ribadire con veemenza che il diritto al lavoro è primario, superiore alla stesso diritto di proprietà, e che il rapporto che ha per oggetto una prestazione di lavoro non tocca solo l’avere ma l’“essere” del lavoratore. Per indicare il significato “antropologicamente strutturante” che egli attribuisce al lavoro, Papa Francesco chiede ora persino una “conversione poetica”, indicandola come un’ancora di salvezza anche per problematiche apparentemente “prosaiche“ e “dure” come la democrazia economica. Un’esigenza a cui sembra corrispondere l’afflato che anima il manifesto Democratizing Work (sottoscritto da oltre 3.000 ricercatori di tutto il mondo) con le sue richieste di 1) democratizzare le imprese (facendo partecipare i lavoratori alle decisioni relative alle loro vite e al loro futuro), 2) de-mercificare il lavoro (in quanto prassi sociale che riposa su un’identificazione potenzialmente indissociabile dai soggetti, 3) garantire a tutti un impiego utile (badate, si chiede “lavoro garantito”, non reddito garantito).

Nell’Ottocento i liberisti più sfrenati consideravano gli interventi sull’orario di lavoro o sul lavoro minorile un’ingerenza inaccettabile nel naturale funzionamento del mercato, eppure la legislazione di tutela e di promozione non si è fermata ed è andata avanti. Perché dovrebbe ora arrestarsi di fronte alla questione di una maggiore democrazia nel luoghi di lavoro? A partire da qui, infatti, diventa possibile porsi davvero interrogativi ancora più generali che non possono più essere elusi: quali sono le politiche veramente adeguate a rilanciare le economie globale e nazionali? Quali sono gli equivalenti del New Deal, degli accordi di Bretton Woods, del welfare state, idonei a provocare uno slittamento del potere dalla finanza alla produzione, a trasferire il focus dagli indici azionari all’espansione dell’economia reale, ad accrescere il benessere sociale? A dover essere salvata è l’economia reale, intervenendo sull’offerta e accrescendo la domanda da parte dei governi, dei consumatori, delle imprese. Quando — come nella situazione generata dal covid-19 — non si possono più eludere le domande sul perché tassiamo il reddito da lavoro più dei capital gains, perché non tassiamo adeguatamente le transazioni finanziarie, la ricchezza, il carbone, perché ci priviamo della manifattura domestica di beni fondamentali come i dispositivi sanitari, è evidente che la riconfigurazione anche ideale di cui abbiamo bisogno va molto al di là dei tradizionali dibattiti sulla minore o maggiore crescita o sulla minore o maggiore generosità dei nostri welfare state.

di Laura Pennacchi
Economista