LABORATORIO - DOPO LA PANDEMIA
Saremo più deboli. Tutti. Lo sarà l’Europa. Lo saranno gli Stati Uniti, l’Occidente nel suo insieme. Lo sarà anche la Chiesa, secondo quanto spiega il cardinale Jean-Claude Hollerich, presidente della Commissione delle Conferenze episcopali dell’Unione europea (Comece). Perché, a suo parere, la pandemia ha solo accelerato un processo inevitabile. Allora bisogna rimboccarsi le maniche con umiltà, riconoscere il cristianesimo più autentico, agire di conseguenza. Chiamare alla solidarietà. A soffocarci, infatti, spiega il porporato in questa conversazione con «L’Osservatore Romano», oltre alla terribile malattia ancora senza vaccino, è un consumismo che non ci permette di vivere autenticamente. E un cristianesimo esclusivamente culturale che non ha niente di cui nutrirsi. E di cui nutrire.
Eminenza, sembra di poter dire che in tutto il dibattito mondiale sulla pandemia la grande assente è l'assunzione di responsabilità verso il sud del mondo. Se si considera che per esempio l’Africa sembra una bomba, anche virologica, pronta ad esplodere, secondo lei serve più fare appello alla solidarietà o al realismo?
Penso che la solidarietà sia sempre una risposta al realismo. L’Africa è già stata colpita duramente. Non per i casi di malati o di morti, anche se ce ne sono tanti, ma per la sofferenza dell’economia. La gente in Africa è già diventata più povera. Bisogna approfittare di questa crisi per fare un gesto di solidarietà. Noi in Europa siamo ricchi, e lo siamo anche perché abbiamo approfittato della ricchezza dell’Africa, per cui è semplicemente giusto che come fratelli e sorelle aiutiamo questa gente a trovare un nuovo equilibrio economico, a poter guadagnare la loro vita senza dover inviare i profughi in Europa. Abbiamo questa responsabilità, come cristiani, per tutta la terra. La nostra solidarietà non deve avere frontiere. Naturalmente quello che ha detto a proposito del realismo è molto vero. Perché i paesi europei, o anche la gente in Europa, ora quando parla di malati parla di se stessa, perché la povertà riguarda anche l’Europa, parla di come combattere la povertà qui. E questo è legittimo. Ma non possiamo dimenticare i più poveri. Il Vangelo e Cristo non ce li lasciano dimenticare.
Recentemente ad Alpbach, in Austria, in occasione della Messa per l'apertura del Forum europeo, lei ha evocato una sorta di intervento congiunto da parte dell’Europa per contrastare la pandemia, a difesa della pace e per non tradire i valori cristiani. Che forma dovrebbe assumere questo intervento?
Penso che noi dobbiamo fare qualcosa per l’Africa come l'America ha fatto per l'Europa dopo la guerra. Non basta fare piccoli programmi di aiuto. Bisogna avere veramente un grande piano di sviluppo per questo continente. È più difficile di quanto sia stato per l’Europa, perché dopo la guerra l’Europa ha ritrovato i suoi sistemi democratici e noi sappiamo che in Africa ci sono sistemi politici che qualche volta non permettono lo sviluppo dei popoli africani. È anche vero che l’Europa non è sola, in Africa. La Cina diventa via via più potente, la sua presenza si fa sentire. Dunque bisogna fare uno sforzo congiunto con la Cina, con tutta la gente di buona volontà, per lo sviluppo dei paesi africani. Noi parliamo come Chiesa cattolica ma ci sono anche altre chiese in Africa, altre religioni... Sarebbe così bello se le religioni potessero diventare la coscienza dell'umanità, per chiamare insieme allo sviluppo di questi popoli africani... Perché Dio ama allo stesso modo la gente dell’Africa e dell’Europa. Dio non ha una preferenza per l’Europa, questo è chiaro. Pensare il contrario è espressione di un eurocentrismo latente. E non è giusto, dalla prospettiva cristiana. Se siamo consapevoli che Dio ama ogni uomo, ogni donna, bisogna fare insieme. Perché la felicità, un certo benessere, la pace, la giustizia, devono essere per tutti.
Le rivolgo una domanda franca: a suo parere l’Europa, così com’è, va riformata o piuttosto rifondata?
Io spero sempre nell’Europa. Perché quando guardo alla breve storia dell’Unione europea, vedo che ci sono già state tante crisi e ogni volta l’Europa le ha superate. Penso che ci sia stato un vero pericolo, all’inizio della pandemia, di non riuscire a mantenersi in un nuovo ordine mondiale. Ma ora si vede che l’Europa farà i suoi compiti. Penso che le Chiese cristiane, insieme con i nostri amici delle altre religioni, devono sentire la responsabilità della chiamata alla coscienza europea, fare un po’ di più, mostrare questa solidarietà, che vuol dire rinunciare a un po’ di ricchezza per sé stessi per poterla condividere con gli altri.
Perché l’Europa laica sembra fare così fatica a ritrovare e a difendere il senso profondo della sua azione e della sua ragion d’essere? È un problema più politico o più culturale?
Penso che in qualche modo ci siano ancora nella cultura europea resti di quella cristiana. Questi resti non sono come le antiche rovine ma sono ancora momenti attivi della cultura dell’Europa. Questi resti aiutano a vivere più di solidarietà. E sono presenti anche in uomini e donne della politica che non si dichiarano cristiani. Si veda ad esempio come è stata accolta la Laudato si’. C'è una grande apertura a questi messaggi, soprattutto del Santo Padre, pure in un’Europa laicale. Qualche volta questa Europa laica o laicista si presenta anche in vestiti cristiani. Ma sono appunto soltanto vestiti. Non sono gli elementi della cristianità e del Vangelo che sono all’opera, è solo un carnevale. La solidarietà, il fatto di dividere, di voler dividere le ricchezze con i più poveri, rispettare i diritti umani: questi sono elementi distintivi del cristianesimo. Ma purtroppo penso anche che il cristianesimo stia diventando più debole in Europa. Anche dopo la pandemia credo che il numero della gente che va in chiesa sarà diminuito. Dobbiamo pensare sempre all’evangelizzazione dell’Europa. Non è vero che l’Europa sia sempre cristiana. Non è stato vero neanche nella storia, perchè ci sono stati momenti di un pauperizzazione completa. Noi dobbiamo proclamare il Vangelo all’Europa, dobbiamo compiere un’opera di evangelizzazione. Bisogna farlo prima con i fatti, con i nostri comportamenti, con il nostro aiuto, e dopo con le parole. Perché la gente ci dice: “Abbiamo sempre sentito questo parole ma non ci dicono niente, perché voi non vivete quello che proclamate”. Come Chiesa siamo chiamati da Dio, anche attraverso la voce del nostro Papa, a diventare più cristiani, veramente più semplici, anche economicamente più poveri. Perché noi abbiamo un consumismo in Europa che non ci permette più di vivere. Stiamo soffocando la nostra vita, in Europa. Abbiamo bisogno di una evangelizzazione che vada in profondità. Dobbiamo cambiare, dobbiamo sentire la voce di Cristo che ci chiama a un cambiamento profondo.
Torniamo alla pandemia. Come giudica nel complesso l’intervento europeo?
I più “avari” non hanno avuto ragione. Ma ora bisogna aspettare il dibattito nel Parlamento europeo, nei parlamenti nazionali. Non è finita. Bisogna accompagnare i diversi processi. Ma penso che anche la Chiesa in Europa è chiamata a dare una parola di sostegno a queste azioni. Senza cadere nella tentazione di voler fare politica o di imporre una risposta piuttosto che un’altra. Questo non è il nostro compito. Ma di affermare che l’Unione europea è importante sì. Perché senza l’Unione europea i paesi più poveri o più colpiti dalla pandemia, come l’Italia, la Francia, la Spagna sarebbero più poveri ancora e senza l'Unione europea i paesi ricchi, come quelli del Nord, non potrebbero essere maestri di esportazioni. Tutti abbiamo bisogno di questa Unione europea. E come cristiani dobbiamo essere per il bene comune. È molto difficile pensare a un bene comune senza l’Unione europea. Io non sono europeista. Sono per il bene comune. E il bene comune è più grande dell’Europa. Penso che ci siano tanti uomini, tante donne, anche se non tutti cristiani, che lo hanno capito e che per questo vogliono una maggiore solidarietà. Allora noi dobbiamo chiamare a una più grande solidarietà, che sia economicamente e politicamente possibile.
Le chiedo una previsione: alla fine l’Europa come uscirà, da questo periodo drammatico, più o meno forte? E la Chiesa?
Parto dalla seconda parte della domanda. Penso al mio paese: saremo diminuiti di numero. Perché tutti quelli che non sono più venuti alla Messa, perché venivano solo per ragioni culturali, questi “cattolici culturali”, di sinistra e di destra, non vengono più. Hanno visto che la vita è molto comoda. Possono vivere molto bene senza dover venire in chiesa. Anche le Prime Comunioni, il catechismo per i ragazzini, tutto questo diminuirà di numero, ne sono quasi certo. Ma non è una lamentela da parte mia. Avremmo avuto questo processo anche senza pandemia. Forse ci avremmo messo una decina di anni in più. Ma arrivati a questo punto, la Chiesa deve essere ispirata da un’umiltà che ci permetta di riorganizzarci meglio, di essere più cristiani, perché altrimenti questa cultura del cristianesimo, questo cattolicesimo soltanto culturale, non può durare nel tempo, non ha nessuna forza viva dietro. Penso che sia una grande opportunità per la Chiesa. Noi dobbiamo capire quello che è in gioco, dobbiamo reagire e mettere in campo nuove strutture missionarie. E quando dico missionarie dico allo stesso tempo azione e parola. Penso anche che nel mondo dopo la pandemia, l’Occidente, gli Stati Uniti, e l’Europa, saranno più deboli di prima, perché quel fenomeno dell’accelerazione portato dal virus farà crescere altre economie, altri paesi. Ma questo dobbiamo vederlo con realismo, dobbiamo abbandonare l'eurocentrismo presente nei nostri pensieri e con grande umiltà dobbiamo lavorare con gli altri paesi per il futuro dell'umanità, per avere maggiore giustizia. Anche, nel senso indicato dalla Laudato si’, dobbiamo impegnarci. Ma per un buon impegno serve umiltà. Senza umiltà non c’è nessun impegno realistico possibile.
Qual è stata la sua più grande delusione, in questi mesi, e invece quale il momento di maggiore speranza?
La mia grande disillusione è stata quando ci sono state reazioni completamente nazionaliste in Europa, all’inizio della pandemia. Come se l’Unione europea, come solidarietà, non esistesse. Questo mi ha fatto male veramente. Come la frontiera chiusa con la Germania, nell’anno in cui ricorreva l'anniversario dell’occupazione tedesca del Lussemburgo: un’insensibilità verso la storia europea. Ma la mia speranza viene dal fatto che i responsabili hanno visto e hanno capito e si sono detti che anche in presenza di una nuova crisi, di una recrudescenza di casi, non faranno più lo stesso. E poi la mi speranza è Cristo. Per me è vedere la mia fragilità. E che la mia fragilità non è una minaccia per me ma un’occasione per dire che io trovo la mia salvezza in Gesù Cristo, che lui è la mia speranza e che la sua parola, la sua morte sulla croce, la sua resurrezione, fanno sì che io mi impegni sempre di più per una società più giusta.
di Marco Bellizi