Oriente e Occidente nei racconti dello scrittore argentino Roberto Arlt

Nella mente di un allevatore di gorilla

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09 settembre 2020

Forse occorrerebbe partire dalla fine. Per la precisione dalla conclusione di un libro di Emmanuel Carrère, Limonov: il protagonista racconta all’intervistatore che per la fine della sua vita vorrebbe non una bella pensione, non la ricchezza e la fama, ma sedersi «all’ombra delle moschee» come quei mendicanti «senza età, senza occhi» che sì, saranno anche dei relitti, ma sono anche dei re. Partiamo da qui, perché è qui che ci poniamo la domanda che assilla la letteratura d’occidente: per quale motivo la povertà, il vagabondaggio, la lontananza dai beni d’occidente, hanno sempre affascinato non solo artisti, scrittori, poeti, filosofi, ma uomini comuni che sono spariti senza lasciare traccia?

A questa domanda rispondono libri che a tutta prima non sembrano nascere con questa funzione. Ad esempio L’allevatore di gorilla (Monterotondo, Fuorilinea, 2019, 16 euro, 187 pagine), di Roberto Arlt, tra i maggiori scrittori argentini del Novecento (1900-1942) che venne inviato in Spagna e in Africa come corrispondente di «El Mundo» a partire dal 1934. Dall’esperienza africana nascono i racconti di un libro che ci riporta di nuovo in contatto con i vagabondi (chissà se per scelta o per necessità, si interroga l’uomo d’occidente) i cantastorie, i mendicanti ciechi (e la cecità è un archetipo diffuso, si pensi a Omero) i venditori cerimoniosi dalla doppia vita, gli assassini gentiluomini, le donne che vanno oltre la loro apparente condizione di subordinazione per cambiare le carte in tavola e capovolgere il gioco. Arlt non si pone apparentemente la questione del fascino dell’ignoto, semplicemente perché nei suoi racconti si confonde con le resistenze della ragione d’occidente, la seduzione della violenza e del ritorno all’animalità pura, ma anche con il tentativo di distanza del testimone che deve raccontare. Per cui lo scrittore che negli anni precedenti aveva dato voce agli emarginati di Buenos Aires con i loro espedienti per sopravvivere, si trova ora a tentare la narrazione di qualcosa di diverso, apparentemente: il panorama metropolitano cede il posto a strade non asfaltate, piazze più simili «a un puzzolentissimo letamaio, pavimentato con dell’orrenda ghiaia sparsa a caso», ma anche ad angoli che improvvisamente hanno tanta “forza poetica” da far chiedere ai protagonisti se per caso non fossero l’anticamera del paradiso.

Ma c’è dell’altro: se da una parte l’occidentale rimane straniero, come nel caso dei protagonisti del Tè nel deserto (più di dieci anni dopo) di Paul Bowles, anche se percepisce in parte il richiamo dell’ignoto, dall’altra il narratore non può fare a meno di raccontare lo sprofondamento in quello che forse è uno dei modelli di Arlt, il Conrad di Cuore di tenebra, l’orrore del ritorno. Orrore in senso religioso, come contatto ustionante con quello che nella Roma protostorica si chiamava il piaculum, l’oggetto, l’animale o l’uomo che era entrato in contatto con il divino e che nel caso del racconto Gli uomini fiera diventa l’orrore della trasformazione dell’uomo in predatore.

E qui sta l’abilità dello scrittore: il processo di animalizzazione non viene montato come scena horror, ma semplicemente con la descrizione della reazione del personaggio razionale e colto di fronte all’improvvisa apparizione della bestia nell’altro.

La risposta difensiva del sottosuolo pre-psichico e nel «desiderio violento di mordere», che causa «un piacere vertiginoso nel degradare la mia dignità umana». Arlt riesce in poche parole a cogliere i momenti essenziali in cui l’inconscio animale torna ad emergere, semplicemente perché l’io razionale viene messo alla prova dalla paura, dalla fame, dall’ingiustizia, dalla violenza dell’altro.

E il riferimento all’umiliazione della Germania, che venne praticamente consegnata alla fame, dopo la fine della prima guerra mondiale, con il risultato di risvegliare la belva del risentimento, viene subito alla memoria: questo fa parte della capacità della letteratura di percepire le profondità dietro le apparenze.

La confessione del magistrato al sacerdote cattolico segna un passaggio da non sottovalutare, soprattutto perché non dichiarato dalla voce narrante e perciò appartenente al sé profondo autoriale: la ragione deificata è stata spesso spodestata dal ritorno alla fiera primitiva, e il motivo è che essa è solo una parte della immensa e non quantificabile energia dell’essere.

La religione è ricerca delle radici di senso, non superstizione, emerge — senza che sia mai detto esplicitamente — da queste pagine.

Merito dei racconti di Arlt è quello di non giudicare e di non sottostare alla presunta sovranità della logica d’occidente: la magia, la religione, sia essa islamica che cristiana, ebraica o quella arcaica dei luoghi narrati, la constatazione che la ratio può aiutare fino ad un certo punto nel contatto con altre culture, rappresentano l’elemento profondo di storie che narrano, avrebbe detto Ariosto, «altri piani, altre valli, altre montagne».

di Marco Testi