«Il grande me» di Anna Giurickovic Dato

La (ri)scoperta del padre nella sua ora più buia

Particolare dalla copertina del romanzo edito da Fazi
10 settembre 2020

Simone Capace, 65 anni, tra le altre cose ex senatore della Repubblica italiana con la passione del canto, è un malato oncologico. Pochi sono i mesi che lo separano dalla morte. Li trascorrerà coi tre figli, Mario, Carla e Laura — che poco conosce e poco lo conoscono —, a Milano, tra casa e ospedale, tra ricordi di gioventù siciliana, rimpianti, rimorsi, illusioni, allucinazioni e amare speranze. A narrarne la storia è proprio Carla che, in prima persona, vive il dramma del distacco e il dolore della perdita, e raccoglie — mentre ogni giorno il padre vede sbiadire una delle sue funzioni vitali — intensi pensieri che assomigliano non tanto a un memoriale quanto a un concentrato d’emozioni, a una centrifuga di sentimenti che si specchia con i grandi temi dell’esistenza: la malattia — «cupa, mostruosa, eppure così vera» — è strumentale a riflettere, soprattutto, sullo scorrere del tempo. Come recuperare occasioni e giorni perduti davanti all’inesorabile fine che, pian piano, si avvicina?

Anna Giurickovic Dato (Catania, 1989) firma per Fazi Editore un’opera che è commovente, sfrontata e scombussolante al contempo. Il grande me (Roma, 2020, pagine 236, euro 18) è commovente perché racconta la (ri)scoperta di un padre nella sua ora più buia, descrivendo un rapporto genitoriale all’inverso (Simone diventa il figlio da accudire, mentre Carla e i suoi fratelli sono le mamme e i papà che devono curare, alleviare pene e tristezze); è sfrontata perché sbatte in faccia a chi legge la durezza della malattia e lo fa nella maniera meno ipocrita che esista, sottolineando, senza edulcorazioni di sorta, tutte le fasi della sofferenza (dalla perdita della memoria a quella della parola) ed è, infine, in grado di scombussolare perché costringe, sempre il lettore, a fare i conti con il proprio io, con le vicende — magari analoghe — già vissute o che, forse, potrebbero esserlo in futuro.

Ad alleggerire — è la parola giusta? — la tensione emotiva del romanzo scritto dall’autrice de La figlia femmina (Fazi, 2017) è il mistero che lo attraversa. Simone ha nascosto per lungo tempo un segreto alla famiglia da cui, a causa del divorzio con la madre dei suoi figli, s’è distaccato ben presto, lasciandola a Roma per trasferirsi nel capoluogo lombardo. A ogni modo, accantonando la suspense derivante dal desiderio di capire cosa celi il passato dell’istrionico uomo, ciò che colpisce maggiormente del libro è questa verità assordante e assai cruda: «Ci conosciamo davvero papà? (…). Avremo mai modo di conoscerci come vorrei?».

Nel tempo stretto che rimane, Carla, a nome di tutti i figli del mondo, si interroga sulla sua vita («Ho trascurato lui e nient’altro, per anni l’ho lasciato qui solo, nella sua tana di depressione dove si illudeva di stare bene. E anche io, per comodità e nient’altro, mi illudevo di stare bene»). Lo fa perché, se è vero che i figli sono il prolungamento dei padri, sono i libri che hanno letto, i film che hanno visto e le esperienze che hanno vissuto, deve imparare a sapersi. Quanti istanti Carla non ha coltivato per conoscere Simone e, quindi, una parte di se stessa?

Potrebbe, dunque, rappresentare un invito a non perdere tempo questo libro, un invito a sbrigarsi a contenere quante più moltitudini possibili animano adesso i propri cari, affinché, un giorno, vivano, persistano nella propria quotidianità. La narratrice, il concetto, lo rimarca più volte quando, ad esempio, dice: «Tu esisti ancora, in me», «Penso ai suoi occhi atterriti, e sono i miei» oppure nel momento in cui afferma: «Lui è mani e io creta», bella immagine sui legami, sulle radici, sulla famiglia, sui “grandi noi”.

C’è, ancora, il coraggio di chiamare le cose col proprio nome ne Il grande me. Mentre gli altri parlano di feste, fanno «chiacchiere inutili» e stanno «tutti a fotografare», hanno terrore di conoscerlo, il male, «di sbirciare dallo spiraglio» e, per questo, non resistono, non sorreggono, non intervengono. Chi sta all’esterno, chi non vive sulla propria pelle la malattia, distoglie lo sguardo dal malato, non l’accetta, quasi ne ha ribrezzo, repulsione, si allontana. «La signora di fronte a noi si alza e cambia posto, non vuole stare seduta vicino a un uomo malato. La giacca e i pantaloni spiegazzati, sul golfino c’è una macchia bianca, non so dire di cosa, perché non ricordo l’ultima volta che papà abbia mangiato. Le sue unghie, quelle che non taglia più, sono per me solo il culmine delle sue tenere dita, ma per la signora rappresentano un disordine che non si può accettare. Se solo sapesse delle punture di insulina, quelle di eparina, le pillole per la pressione, gli enzimi pancreatici, gli antispasmodici, gli antidolorifici, il treno avanti e indietro Milano-Verona e le inutili chemioterapie, con una stanchezza che è quella di chi non ha fiducia, le pause per respirare nei corridoi d’ospedale, la boccetta da pulire, il tubo nella carotide, la ferita da disinfettare, lo stomaco da riempire controvoglia, il morale da tirare su, ogni secondo, la fatica di dover ridere, lo stupore di poterlo ancora fare, se la signora sapesse, forse accetterebbe quelle unghie lì. Comprenderebbe che non ci rimane il tempo, a volte non abbiamo la forza di pensarci. Lui si accorge che la donna ha cambiato posto dedicandogli uno sguardo di disapprovazione, il suo viso si contrae leggermente, ma è troppo stanco persino per soffrirne».

È un passo come quest’ultimo che bisognerebbe tenere a mente. Lo ha scritto con onestà, in pagine in cui si dialoga con la vita e con la morte, e in cui — come nella citata opera precedente — si torna a parlare di rapporti familiari, Anna Giurickovic Dato. Grazie alla narrazione che diventa universale, la scrittrice riesce a impartire una lezione d’umanità. Un modo per rispettare chi «sembra un bambino che vede per la prima volta la neve, ma è un uomo che la vede per l’ultima volta e lo sa».

di Enrica Riera