In «Due vite» di Emanuele Trevi

La giusta distanza

Particolare dalla copertina del libro
23 settembre 2020

Amo il lavoro che già dal libro precedente, Sogni e favole, Emanuele Trevi sta facendo sul ritratto. Arturo Patten, Cesare Garboli, e ora Rocco e Pia. Raccontare gli amici gli permette di dare un ruolo alla sua intelligenza, che è una delle più sorprendenti che io abbia mai conosciuto, alla sua cultura, a una scrittura sempre più lucente, narrativa e saggistica e saggia insieme.

Ma dalle ultime opere vengono rivelate anche doti meno esibite, come la generosità e l’onestà, che dobbiamo intendere come qualità letterarie. Intervistandolo qualche tempo fa, in occasione di Sogni e favole, gli domandai se stesse scrivendo un suo personale libro dei morti. Trevi scosse la testa, scriveva anche dei vivi, ma certo i morti avevano in più quel loro essere conclusi. Per ragioni di spazio, poi quella risposta e quella domanda erano saltate dall’intervista. Rocco Carbone e Pia Pera, due scrittori e due amici di Trevi, sono morti, Rocco in un incidente con il motorino, Pia lentamente per via della Sla.

Il 17 di luglio del 2008, il giorno della morte di Rocco, era il compleanno di un’amica comune, Rocco era venuto a festeggiare da me al Pigneto e aveva passato la sera con noi; siamo stati gli ultimi a vederlo, e anche se frequentarsi non era sempre semplice, per ragioni che Trevi spiega benissimo — la sua rigidità, il suo rifiuto di ogni ambivalenza nei rapporti — era per me e per mio marito uno degli amici più cari. Perciò ho aspettato finché ho potuto prima di leggere Due vite (Milano, Neri Pozza 2020, pagine 144, euro 12), facevo resistenza, poi sono riuscita ad aprirlo e a finirlo in una sera con uno sforzo di volontà. Ho fatto bene a leggerlo. «Le persone — scrive Trevi — se gli vai troppo vicino, diventano macchie. Se ti allontani troppo si perdono nell’insieme. Devi trovare la giusta distanza», me lo diceva già in occasione dell’intervista (uscita su «L’Osservatore romano»).

Trovare la giusta distanza è l’impegno che Trevi si impone in questo libro e che gli riesce con una precisione da rimanere sconcertati per quel che riguarda il ritratto di Rocco: Rocco è qui. «Il morto è attirato dalla scrittura, trova sempre un modo inaspettato per affiorare nelle parole che scriviamo di lui». Pia la conoscevo meno, ma nelle parole di Trevi mi sembra che sia rimasto impigliato qualcosa che le somiglia, un sapore, un brillio, una libertà. La letteratura, parafrasando Trevi, non può raccontare per generalizzazioni, ha bisogno di storie personali, capitate a uno soltanto, la letteratura parla a noi attraverso l’unicità. Nella perdita avvertiamo l’unicità degli amici come uno strazio infinito. Non possiamo darci pace all’idea che quella unicità vada perduta, sia vana. Chi non crede ha meno risorse, ma a volte, le strattona, le sforza producendo onestà e bellezza.

Trevi vuole evocare gli amici. Provare a farli rimanere ancora un po’ da queste parti, trattenere i morti, contendere con il tempo, richiamarli indietro, un po’ rintronati, tonti, poco comunicativi come Euridice, ma ancora un poco qui. E farlo presto, perché «anche i ricordi di chi abbiamo conosciuto talmente bene che la consuetudine è diventata quasi un riflesso condizionato, si staccano e volano via con rapidità inconcepibile». Sono opere queste ultime di Trevi, in cui la caducità è la condizione stessa a partire dalla quale si scrive, la caducità è messa a tema. Ma queste opere sono piccoli trionfi sul tempo. Legandole senza alcuna soluzione di continuità alle loro vite, Trevi racconta le opere di Rocco e Pia, l’opera di esordio di Rocco, Agosto (Theoria, 1993), con la sua scrittura svuotata di effetti, antiespressiva, L’apparizione (Mondadori, 2002), libro bellissimo, dove la malattia ritorna a essere un dio; racconta il lavoro di immedesimazione che ha portato avanti sul libro postumo di Rocco, Per il tuo bene (Mondadori, 2009); la dolorosa e assurda vicenda del Diario di Lo di Pia (Marsilio, 1995), la traduzione dell’Onegin di Puskin, la bellezza cosmica di Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte alle grazie, 2016).

Due vite è un libro già amatissimo da chi lo ha letto, credo che sia perché è capace di ricordare, all’osso, cosa fa la letteratura, come è capace di contendere con il tempo e come già la contesa faccia l’effetto una vittoria minore. Nel percorso letterario di Emanuele poi, questo mi sembra un libro che fa un passo decisivo verso una precisione estetica perché anche etica, etica letteraria, della pagina, ma non per questo meno etica. A raccontare non è come in Sogni e favole la caricatura di Emanuele, che fa brillare gli amici per contrasto, e che richiama l’attenzione sulla sua comica deformità, non è un personaggio abbassato, qui Emanuele parla dalla stessa altezza degli amici, non vuole attenzione su di sé, ci parla di loro, del suo sguardo su di loro, ci mostra poche foto: di uno, di due; fra i tre amici c’è sempre quello che scatta le foto e quello che scatta la foto non si vede. Le foto sono tremende, lo sono sempre, vertigini della caducità, condensatori del tempo. Ma è solo per un caso, un incidente, una malattia, che adesso dietro alla macchina fotografica, con la penna in mano, ci sia lui.

di Carola Susani