Tra l’aspirazione alla pace e la tragedia della guerra

La fine dell’innocenza

Particolare della “città di ghiaccio” scavata dagli austriaci sulla Marmolada durante la Grande guerra
15 settembre 2020

Rileggere «Le due Chiese» di Sebastiano Vassalli


Cara Giulia, continuando il mio viaggio letterario alla ricerca di frescura estiva sono arrivata alle pendici del Monte Rosa, in Piemonte. In un paese difficile da trovare sulle mappe tanto è piccolo e dal quale la montagna mi appariva maestosa e solenne come mi era parso di aver letto da qualche parte. Era la prima volta che mi trovavo lì ma conoscevo tutto, sapevo delle tante piccole chiese disseminate tra i boschi, affrescate in modo sobrio che raffiguravano l’ultima cena, con poche semplici anguille nei piatti degli apostoli e mi sembrava di aver già percorso le mulattiere inerpicate tra le montagne. Non c’era dubbio, ero arrivata a Rocca di Sasso, il paese immaginario di cui Vassalli narra ne Le due Chiese (Rizzoli, 2015), e non sarebbe nemmeno servito sentire aleggiare la musica dell’Internazionale per capire che i luoghi erano più che veri che mai. Il Macigno Bianco era il Monte Rosa ed era ancora lì, fisso e immobile come nei primi anni del Novecento quando ha inizio questa storia e quella musica, conosciuta soprattutto come inno ufficiale delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, era tornata al silenzio, «nella quiete dei luoghi dove è nata, ad attendere che si affermi nel mondo una nuova religione… la religione della natura».

Cara Flaminia, con la precisione di uno storico e la scrittura di un poeta, Sebastiano Vassalli narra la vita quotidiana ai piedi di un massiccio che come fa per ogni personaggio, non chiama mai con il nome vero. Siamo agli inizi del secolo scorso, solo una vecchia corriera congiunge Rocca di Sasso al resto del mondo e la vita scorre monotona, scandita dalle stagioni, da lavori ripetitivi e perciò rassicuranti. La vita in piazza, la scuola, gli amori, tutto sotto la presenza incombente della montagna. La gente è semplice, profondamente religiosa, di una religiosità a tratti ingenua e “pagana”. Ma con la grande guerra il microcosmo di Rocca di Sasso inizia a disintegrarsi. Il dolore, il lutto, la morte che erano stati fino ad allora serenamente parte della vita assumono tinte fosche. La guerra è la fine dell’innocenza e avvia irreversibili cambiamenti.

Flaminia: Il romanzo, come la vita dei suoi protagonisti, è sempre in bilico tra due possibilità che in qualche modo aspirano alla ricerca di Dio o alla sua negazione. Quel Dio «che abita nella grande montagna e che, in un certo senso, è la grande montagna. Secondo alcune leggende il Macigno Bianco non è soltanto l’immagine di Dio e il luogo dove lui risiede sulla terra, l’aldiquà, ma è anche l’aldilà, il luogo dove tutti finiscono dopo che sono morti».

Giulia: Il romanzo mi pare attraversato dal concetto di dualità, tutto è doppio. Due sono gli amici che fanno da fil rouge a tutta la narrazione, dissimili e che pure si vogliono bene, le due chiese, i due partiti, gli interventisti e i pacifisti, le doppie identità, quelle reali e quelle dei soprannomi e persino due le grandi e tragiche guerre. La dualità è tra bene e male. Vassalli la esprime attraverso il sogno di un mondo migliore e più giusto e il fallimento delle ideologie, tra l’aspirazione alla pace e la tragedia della guerra. La montagna, pura verticalità, col suo ergersi tra terra e cielo finisce per essere metaforicamente un punto di congiunzione tra realtà e trascendenza. Allude alla concretezza e al tempo stesso al bisogno di elevarsi, di guardare in alto.

Flaminia: Vassalli è indubbiamente un grande narratore, riesce a riportare in vita con pochi tratti la psicologia di un’intera generazione in cui ognuno di noi può riconoscersi. I suoi personaggi sono “tondi” e dinamici. Nessuno alla fine resterà come prima e non solo perché ha attraversato la vita e la guerra ma perché la continua evoluzione dell’animo umano non può che cambiarli. Nessuno è come appare, neanche il maestro Prandini, severo e compìto con i suoi alunni ma che poi finisce per non abbandonarsi mai alla preghiera, a leggere giornali socialisti e a unirsi a una donna già madre, prima di portarla all’altare. Ansimino, invece, ribelle e rivoluzionario, si trasformerà in un uomo di profondo buon senso ed equilibrio. Sarà lui con la sua corriera a inerpicarsi tra le montagne per annunciare tristemente lo scoppio della guerra e ancora lui a organizzare l’ultima cena, prima che vita e risate vengano spazzate via dalla furia della guerra. E ancora lui, molti anni dopo, ai tempi della seconda guerra mondiale a contrastare le idee fasciste del vecchio amico Prandini, divenuto deputato, che da socialista credeva nella religione del lavoro e che poi si convince che il lavoro rende soltanto schiavi.

Giulia: Ci sono due racconti all’interno del romanzo, ancora una dualità. La parabola dell’Eretico e quella del Beato che sono gli unici ad aver lasciato una traccia tangibile in quella valle. Sono l’uno l’opposto dell’altro, la luce e le tenebre, la ragione e il torto, il giusto e l’ingiusto. La storia dell’eretico è l’emblema di un’umanità che vuole liberarsi di tutto ciò che l’opprime. È l’Internazionale.

L’eretico è bello ed è forse il figlio di un prete, come ce ne sono molti nella valle, crede che alla fine il bene prevarrà sul male e che Dio è puro amore. Dice che chi serve Dio può vivere anche senza lavorare e che la proprietà è di tutti così come lo sono gli uomini e le donne. L’unica regola è la gioia e l’unico limite il piacere. Ha una fidanzata con cui si unisce di notte e con cui fa l’elemosina di giorno. In paese però si dice che si salva solo chi rinnega l’eretico e il suo modo di vivere, ma l’eretico riuscirà comunque ad avere seguaci e creare una comunità, finché gli sbirri lo arresteranno per ucciderlo e allora sarà dimostrato che la religione dei preti, unica religione possibile tra gli uomini, ha vinto. Il Beato, al contrario, è un prete e frate francescano, trafficone e impiccione. È piccolo e brutto ma pieno di energia. Gira tra le case, aiuta i moribondi a lasciare questa terra, frequenta le case dei potenti, confessa nobildonne e consiglia gli uomini. Il Papa, secoli prima lo aveva inviato a Gerusalemme allo scopo di allontanarlo. Il Beato così attraversa il paese dei turchi. A differenza dell’eretico pensa che tutto è relativo e che i contrari siano la forza del mondo e non crede nella geografia. Pensa che se i pellegrini non possono raggiungere i luoghi santi, basterebbe trasferire i luoghi santi da un’altra parte del mondo. Gerusalemme è ovunque, il problema è la fede.

Flaminia: Quando la grande guerra finisce e la vita ricomincia è rimasta una Natura indomita e una scritta a chiare lettere sulla Chiesa dei Reduci: «Partiti in 39, ritornati in 15». Una manciata di anni dopo, di quei reduci non è rimasto più nessuno. Prandini fucilato, dell’Internazionale neanche più una nota, Ansimino disperso sotto la neve e le chiese abbattute per lasciare il posto a supermercati, impianti sciistici e parcheggi. Su un edificio campeggia una targa: Centro culturale islamico.

di Giulia Alberico
e Flaminia Marinaro