A colloquio con Alberto Ferlenga, rettore dell’Università Iuav di Venezia

L’etica dell’architettura

Peter Eisenman, Città della Cultura di Galizia (Santiago de Compostela, 2011)
05 settembre 2020

In un’estate drammaticamente particolare per le città italiane, quello di Alberto Ferlenga, rettore dell’Università Iuav di Venezia, è un osservatorio tra i più interessanti. La sua ricerca sulla natura e il destino delle città, l’incontro con figure chiave della riflessione novecentesca sull’architettura, il filo diretto coi giovani ne fanno una sentinella attenta al che cosa ne sarà di noi. L’impatto della pandemia sulla vita urbana scatena infatti preoccupazioni nuove e collettive, affrontabili però con la necessaria lucidità solo alla luce di interrogativi che vengono da lontano. Iniziamo la nostra conversazione da Venezia, simbolo di un’Italia svuotata dal punto di vista turistico, ma anche di tante questioni economiche, politiche, ambientali irrisolte. Alla Iuav la si studia non da ieri: vero, professore?

«Da diversi anni a Venezia organizziamo annualmente un workshop che coinvolge per circa tre settimane millecinquecento studenti, con architetti da tutto il mondo. La nostra sfida è stata dire, partendo da affermazioni di Le Corbusier e di Richard Rogers: Venezia è una città dove si va a piedi, è una città dove paradossalmente il trasporto pubblico funziona, è una città che ha un rapporto necessario con il proprio paesaggio, paesaggio che determina la sua stessa vita e con cui deve quindi mantenere un rigoroso equilibrio. È una città sicura, resiliente da sempre, le stesse case sono costruite in modo che resistano agli smottamenti secolari. È una città dove i luoghi pubblici sono articolati in modo da permettere una vita sociale molto particolare, c’è una graduazione tra lo spazio privato e quello pubblico che permette quanto altrove si insegue».

Il turismo di massa non minaccia tutto questo? Forse la dolorosa tranquillità degli ultimi mesi offre ai pochi visitatori squarci su una bellezza altrimenti travolta...

Preferisco un’altra prospettiva: se tutto ciò fosse reso evidente a chi viene a Venezia, noi avremmo il più grande modello di città sostenibile visitato ogni anno da trenta milioni di persone, che possono riportare in tutto il mondo questo tipo di percezione. Ovviamente se noi accettiamo che i turisti arrivino solo per rivedere ciò che hanno già sul proprio smartphone o sui loro computer, e quindi solo a fotografare un monumento, a confermarsi nei luoghi comuni, allora nulla accade. Ma se noi facciamo percepire anche questo, allora cambia tutto. Allora non Venezia, ma l’Italia diventa unica al mondo. Il rischio c’è e dipende anche dalla quantità: quando una città come Venezia ha trenta milioni di turisti è abbastanza difficile dire che non subisca danni. Basterebbe vedere in questi giorni i canali con acque trasparenti per capire che i danni ci sono. Però è anche vero che il turismo determina in termini economici la possibilità che questa stessa città abbia un futuro. E allora la sfida è tutta nostra.

La nostra sfida, quella di cui parla, fa traballare i confini codificati tra le responsabilità, le competenze, le discipline e rilancia la priorità di una forte consapevolezza civile. In Italia si sono stratificate fisicamente formidabili risposte a bisogni di socialità, di sicurezza, di integrazione, di sviluppo che tornano ad essere di primo piano. Lei è uno dei massimi esperti del movimento novecentesco che ha visto gli architetti intellettuali italiani dare un’impronta mondiale al dibattito sulle città. Che cosa ha da dirci oggi quella storia?

Il tema che a me sembra importante, ad esempio in Aldo Rossi, è il fatto che come i suoi colleghi si trovò a lavorare in un momento particolare per l’Europa, dove si trattava di ricostruire la convivenza sia fisicamente sia moralmente ed erano parametri nuovi a spingere tutto questo, sociali e politici principalmente. Oggi, al di là dell’attuale emergenza sanitaria, che secondo me ci porterà a riconfigurare molti nostri modi di pensare, di insegnare e di fare, noi certamente siamo in un tempo in cui parametri e priorità sono ulteriormente cambiati. Io penso che viviamo un momento di passaggio, dove i temi ritornano modificati. Ricordo gli anni Settanta, quando si parlava di morte della città: noi siamo invece in un’epoca in cui più della metà degli abitanti del mondo abita nelle città, metropoli colossali. È vero che le città, come ricordavano anche Rossi e altri, possono diventare enormi, ma il dato dimensionale non cambia la loro natura, strettamente legata alla dimensione umana. Per esempio, gli spazi sono legati alla figura dell’essere umano la cui dimensione non è cambiata più di tanto. Quindi possono diventare anche enormi, ma all’interno si ritrovano gli stessi problemi. L’interesse, secondo me, che fa oggi ritornare a guardare ai protagonisti dell’architettura novecentesca, sta nello sforzo che loro hanno fatto rimuovere una certa cultura predeterminata, avendo di fronte uno scenario che avevano scelto di privilegiare, quello delle città storiche e delle prime periferie, da interpretare con criteri di lettura nuovi e intrisi di responsabilità politica. L’opera teorica di Aldo Rossi, da questo punto di vista, paradossalmente è interessante proprio perché frammentaria: costituisce un avvio, non ha pretese definitive, contro le tendenze ideologiche di quegli stessi anni. Quasi a dirci: «Io vi do alcune indicazioni, alcuni parametri di lettura, poi ce ne saranno altri, perché le città si muoveranno».

In effetti, la necessità di ripensare e governare un vivere urbano complesso e pervasivo si è fatta drammaticamente urgente in ogni angolo del pianeta. Di per sé abbiamo anche oggi i grandi architetti, che però sembrano costruire oggetti fine a se stessi, anche belli, ma — se così si può dire — come egoisti rispetto al luogo in cui sono posti.

Tra l’altro parliamo ormai di edifici abbastanza intercambiabili nel mondo, sempre più simili a se stessi, e che incidono come range di interesse là dove esistono economie molto forti, perché servono fiumi di denaro a sostenere certi investimenti. Tutto questo, oltre a definire un’idea più di design che di architettura — edifici come puri oggetti estetici — non dà risposta a quello che in sostanza si consuma nel 90 per cento delle città del mondo, che non sono le down town e i centri direzionali, ma sconfinate periferie, luoghi in cui l’architettura non ha più la capacità di dare spazi interessanti, dove vi è una disperazione urbana che cresce e travolge la qualità della vita di miliardi di esseri umani. Allora la risposta che noi dobbiamo cercare riguarda questo mondo e le priorità diverse che ormai impongono un certo tipo di sostenibilità non più come snobistico interesse di pochi, ma come necessità comune.

Questa sensibilità, che Papa Francesco ha fortemente richiamato nell’enciclica «Laudato si’», richiede in fondo di riconoscerci di fronte a delle macerie, forse meno visibili di quelle lasciate da due guerre mondiali.

Anch’io vedo un parallelo tra quel momento di ricostruzione e il momento che oggi stiamo conoscendo, un’analoga necessità di ricostruzione, essenzialmente culturale. Le architetture ci saranno sempre, belle o brutte, ma ci sono architetture che si sono poste il problema del tipo di trasformazione positiva da dare alle città che hanno intorno a sé e altre che continuano a non porselo. L’architettura importante, l’architettura colta in generale, è quella che si pone il problema di una responsabilità anche etica nei confronti del mondo. Da questo punto di vista Rossi ha avuto la più grande fortuna pubblica — grande architetto internazionale, globale, italiano — però il suo senso di responsabilità era lo stesso dei suoi amici. Lui ha avuto la capacità abbastanza spiazzante di mettere in campo delle modalità diverse, cui presto dedicheremo a Roma una grande mostra. Quasi architetto per caso, un po’ poeta e un po’ scienziato: rigore e sensibilità che si sostanziano nelle sue opere.

Potremmo dire, in fondo, che di tempo non ne è passato troppo. È solo negli anni Ottanta e Novanta che presero forma opere che a livello di dinamismo culturale, di riflessione, di spinta ideale erano maturate nei decenni precedenti. Forse per noi non è troppo tardi… Certo, esiste come un oblio collettivo sull’importanza teorica e storica di quella ricerca.

Esattamente. E c’è un’altra questione per cui quel periodo è stato importante. Tra gli anni Settanta e gli anni Novanta alla figura dell’architetto italiano viene attribuita la capacità di fare i conti con due questioni: la storia e la città. Su questo si costruisce una competenza internazionale degli italiani che è un unicum nella storia dell’architettura e che costituirà anche la base per degli interventi di trasformazione urbana importanti, come quelli di Barcellona e Berlino. La cultura italiana di quegli anni, e intendo in particolare riviste come Casabella e Lotus — ancor oggi in Italia e Giappone c’è la maggior produzione di riviste di architettura al mondo— sta alla base di operazioni di costruzione reale che non avevano alle spalle nei loro Paesi una riflessione adeguata.

E qui torniamo a Venezia, un punto di riferimento di questa cultura che ebbe una sponda eccezionale a New York in Peter Eisenman e nella sua scuola, da cui una nuova generazione di architetti. Eisenman, accogliendo Rossi, fece di un’esperienza generazionale dell’architettura italiana un caso internazionale. È immaginabile un recupero di quel momento, in che termini, in che misura? In quali sedi si intravedono dei piccoli nuovi inizi?

La risposta è relativamente semplice, in senso negativo: è molto difficile trovare nel mondo in questo momento un luogo di riflessione di un certo interesse su queste tematiche. Però esistono dei ricordi, delle eco che si sono mantenute in qualche misura nelle università, nell’idea che architettura, storia e città possano stare ancora assieme. Secondo me, soprattutto nei giovani e nella loro capacità di rielaborare quello che c’è stato prima di loro, magari in forma ancora residuale, c’è una possibile speranza, perché è molto il materiale.

Vivendo permanentemente a contatto con la generazione dei venti-trentenni, sembra davvero ci sia un risveglio, specie attraverso la sensibilità ambientale, di un’autentica dimensione civica, o almeno della sua nostalgia: di un’ecologia integrale, per dirla con una fortunata espressione di Benedetto XVI, che implichi una socialità nuova e paradigmi di sviluppo diversi.

Credo che l’esigenza ci sia: la generazione cui lei fa riferimento è quella che più impersona la necessità di fare i conti con priorità diverse, perché dovrà dare delle risposte agli effetti di ciò che negli ultimi decenni è stato fatto. Indubbiamente è una generazione che lo può fare. Nel mondo in questi ultimi anni c’è stata anche una sorta di revival di quello che trovo di minor interesse di quella stagione, un certo movimentismo giovanile. Ritengo più importante stia rinascendo la necessità di un senso civico, di una riflessione sul proprio ruolo da parte dei giovani architetti, che si esprime nell’interesse magari di forme di condivisione dell’architettura con chi ne deve fruire. Oppure un interesse nei confronti di altri Paesi del mondo, in termini anche di aiuto rispetto alle competenze e alle conoscenze. E credo che tutto questo abbia forse avuto la possibilità di fruire del patrimonio residuale di cui abbiamo detto: bene o male le università italiane, che sono state influenzate da quella stagione, hanno anche sempre mantenuto, spesso in modo stanco, l’idea che sia importante lo studio sul campo. L’Italia ha in sé un patrimonio culturale urbano tra i più importanti al mondo e la riflessione aggiornata su questo — dico aggiornata perché i centri storici più importanti da cinquant’anni non li studiamo più — può rivelarsi molto utile nello scenario di un mondo che ha elementi di tragicità molto forti rispetto alle città. E forse ci sono risposte, come accennavo all’inizio, da scoprire nelle dinamiche di centri storici legate al welfare come star bene in un luogo, un welfare decisamente italiano, popolare, diffuso, a misura d’uomo.

di Sergio Massironi