Cinquanta anni fa la morte dello straordinario chitarrista

Il talento di Mr. Hendrix

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17 settembre 2020

Che grande decade gli anni Sessanta del secolo scorso per la chitarra. C’era Eric Clapton con il suo fraseggio “riflessivo” che gli valse l’appellativo di Slowhand (mano lenta); c’era Jimmy Page che con i suoi riff esplosivi catapultava i Led Zeppelin in territori rock allora sconosciuti; c’era Alvin Lee, talmente veloce da rendere incandescente il manico della sua sei corde. E soprattutto c’era lui, James Marshall “Jimi” Hendrix, morto il 18 settembre di 50 anni fa a soli 27 anni. Morto troppo presto (come altre icone rock dell’epoca quali Janis Joplin e Jim Morrison) vittima di se stesso, vittima degli implacabili ingranaggi dello show business, vittima di una pseudocultura lisergica della quale in quegli anni non si comprendeva a pieno la pericolosità.

Nella sua breve esistenza Hendrix ha davvero scritto una pagina indelebile nella storia della musica rock. E soprattutto nella storia della chitarra. Chi si cimenta, anche solo a livello amatoriale, con lo strumento principe di ogni gruppo rock, sa bene che c’è un prima e un dopo Jimi Hendrix. E ogni rivista specializzata continua a piazzarlo al primissimo posto nelle classifiche (a dire il vero abbastanza inutili) dei migliori chitarristi di tutti i tempi, spesso proprio davanti a Eric Clapton e a Jimmy Page. Hendrix, esattamente come i suoi “colleghi”, aveva una solidissima formazione blues, arricchita tuttavia — a differenza dei bluesmen britannici — da una inevitabile venatura soul.

Il background afroamericano è percettibile in tutta la sua produzione, anche in quella votata al rock più duro o più psichedelico. La sua musica, quindi, non trova paralleli in nessun altro artista dell’epoca, se non forse in Sly & the Family Stone. Ma Hendrix, come ogni persona di genio, era dotato di una enorme curiosità che lo faceva avvicinare a generi molto lontani dal suo. È nota ad esempio la sua passione per Bob Dylan e proprio un pezzo di Dylan, All Along the Watchtower, venne stravolto e rivitalizzato dalla chitarra di Hendrix divenendo uno dei suoi maggiori successi commerciali. Lo stesso Dylan fu colpito dal riadattamento a tal punto da riproporre il suo brano nella versione hendrixiana.

Il desiderio di esplorare tipico di Hendrix — molto diffuso, nel bene e nel male, in quegli anni — trova tuttavia la sua migliore espressione proprio nell’uso della chitarra. La sua Fender Stratocaster bianca, rovesciata perché suonata con il manico a destra (come è noto Hendrix era mancino) era capace di emettere suoni mai ascoltati prima. Il famoso wah-wah, poi abbondantemente utilizzato dalle generazioni successive, venne introdotto proprio da Hendrix. E con esso, soprattutto nei concerti dal vivo, tutta una serie di equilibrismi distorsivi e di feedbacks ricavati dall’uso dello strumento a ridosso dell’amplificazione. Durante gli show Hendrix usava la sua Fender quasi come un’appendice del suo corpo, arrivando a suonarla con i denti o dietro la schiena.

Ma oltre il gigionismo da palco, il musicista era davvero dotato di una tecnica inarrivabile, frutto, oltre che del talento, di uno studio e di un anelito di perfezione al limite del maniacale. Sono noti i tour de force a cui Hendrix, in sala di registrazione, costringeva i musicisti del suo trio (un tipo di formazione molto in voga in quegli anni) alla ricerca dell’incisione impeccabile. Talento, tecnica e continua ricerca espressiva costituiscono quindi la cifra della musica di Hendrix, entrato nella leggenda del rock anche per la sua partecipazione, poco più di un anno prima della sua morte, al festival di Woodstock.

Suonando all’alba in uno scenario surreale, Hendrix eseguì tra l’altro una sua personalissima versione di The Star Spangled Banner, l’inno degli Stati Uniti d’America. In quell’occasione il suono della sua chitarra, distorto e piegato fino a simulare bombardamenti e scariche di mitragliatrice, divenne un vero atto di accusa contro la guerra in Vietnam. Ma oltre a questo, l’esibizione di Hendrix a Woodstock rappresenta una sorta di “celebrazione” conclusiva di una stagione, politica e musicale, che non sembra destinata a ripetersi.

di Giuseppe Fiorentino