Riproposto il manoscritto «Dell’impiego delle persone» dell’abate Carlo Denina

Il cittadino illuminato

Il monumento, a Saluzzo, di Alfonso Balzico dedicato a Carlo Denina (1731 - 1813)
15 settembre 2020

Un documento d’eccezione. O meglio, inedito. Si tratta del trattato Dell’impiego delle persone dell’abate e storico piemontese Carlo Denina, risalente al 1776-1777, sequestrato e distrutto prima che le stampe fossero diffuse. Il prezioso documento rappresenta l’ultimo rogo di libri prima della Rivoluzione francese, della quale è antesignano, in una visione “ergonomica” della società in cui tutti — nobili, sacerdoti, monache e monaci — sono chiamati a lavorare per rendere possibile il conseguimento della “pubblica e privata prosperità”.

Grazie alla meritoria opera della casa editrice di Firenze Leo. S. Olschki (Firenze, 2020, pagine 112, euro 20) questo manoscritto viene ora presentato nel volume curato da Carlo Ossola, che alla casa editrice rivolge un sentito ringraziamento per l’azione, tenace e generosa, svolta in funzione della pubblicazione di tale documento. Adesso, per la prima volta, esso è pienamente leggibile grazie al manoscritto conservato dagli Eredi Denina, unico esemplare stampato, integro, al rogo che fu comminato al volume. Come se non bastasse, all’umile e dotto religioso venne vietato l’insegnamento universitario e fu costretto a ritirarsi nel seminario di Vercelli. Una prima trascrizione del trattato si deve a Simonetta Matzuzi, e alla sua tesi di laurea discussa, sotto la direzione di Ossola, nell’anno accademico 1989-1990.

Nei mesi del 1775 in cui Lessing scese in Italia e incontrò a Torino Denina, questi stava ultimando un pamphlet che gli sarebbe stato fatidico: appunto il trattato Dell’impiego delle persone, opera di spiccato accento riformatore, almeno nella sua originale concezione e stesura. L’opera verrà alla luce in età napoleonica, ovvero in un clima cultura e politico — osserva Ossola — ormai lontano dal fervore di riforme che animava l’autore, il quale aveva pensato di affidare al trattato il “succo” politico dell’impegno storiografico profuso nei volumi dedicati alle “Rivoluzioni d’Italia”. Nel terzo di essi, infatti, a conclusione del disegno storico, Denina già richiamava l’esigenza che «tutta la schiera de’ regolari contribuisca al vantaggio temporale della società».

Ora, nella nuova opera, l’intento si manifesta in maniera ancora più esplicita, prospettando una società in cui tutti, nobili e clero compresi, devono svolgere un lavoro utile alla collettività. Ma quando il trattato verrà poi edito, nel 1803, a cura del nipote, tale vis sarà stemperata — rileva Ossola — in una sorta di breviario di economia politica.

Nell’incontrare Denina, Lessing sceglieva, della cultura sabauda, uno degli esponenti più aperti e impegnati a promuovere “un ufficio civile” delle lettere che lo rendeva partecipare della civiltà delle riforme, di quella république des Lettres della quale intanto propugnava — con piena adesione ai grandi temi dell’Illuminismo europeo — i fini, volti a favorire «l’utilità dell’uman genere». Tale compito era tanto più legittimo in quanto il lavoro di eruzione storica che egli andava terminando conduceva a una serrata analisi del presente. «Non si può insomma intendere la “necessità” teorica del trattato Dell’impiego delle persone — sottolinea il curatore — se non si affianca la lettura della Bibliopea, apparsa all’inizio del 1776, anno in cui matura la convinzione in Denina dell’urgenza di un impegno nelle «cose moderne». Così scrive l’abate: «La storia cresce veramente di sostanza e di molte ogni giorno, ed esige ora, senza dubbio, assai maggior tempo, per discorrerla tutta, che non facesse, non dico a’tempi di Cicerone, e di Seneca, a di Erasmo e di Bacone, per li tanti avvenimenti, e le scoperte, che si fecero d’allora in poi, e che sono necessarie a sapersi. Ma due cose convien considerare a questo proposito: una, che la diligenza e l’industria de’ moderni compilatori ne rendè più facile tutto questo studio; l’altra, che riguardo al vero fine per cui si dee studiar la storia, a proporzione che si studiano le cose moderne, riesce men necessario il trattenersi ostinatamente nelle cose antiche».

Era comune ai due trattati il bisogno di formare, attraverso il libro e il lavoro, il “cittadino”. Lo spartiacque era stato segnato dal movimento dell’Encyclopédie: «Nel risorgimento universale delle lettere da tutte le parti si sentiva risuonare l’enciclopedia». Ma in Denina il modello si nutriva, attraverso Montesquieu, anche della sapiente lezione dei Romani, proposti — tanto nella Bibliopea che nel Dell’impiego delle persone — come esemplari della «versatilità degli uffici» che incombe al cittadino.

Il disegno riformatore di Denina non si ispira tanto alla riforma tridentina, ma trae linfa vitale dall’esempio che si specchia nella primitiva Chiesa dei Padri. L’abate si richiama cioè al modello di una vita monastica operosa, al servizio dei poveri, e che sia di beneficio a una società equa e leale.

L’abate non lesina frecciate intinte nell’ironia e punte di riprovazione nei riguardi dei comportamenti di monaci e nobili. Non approva, Denina, la vanità delle loro occupazioni, che non portano frutto: anzi, spesso provocano danni. «Gli oriticelli de’ Certosini e de’ Camaldolesi sono prove manifeste e permanenti di questa disciplina, benché il buon senso e la ragione vorrebbero che quella fatica, che si getta senza profitto, e con noia, intorno a mirti e a viole, s’impiegasse ne’ campi e negli orti a seminare e raccogliere grano, e legumi, e a coltivar piante fruttifere; sicché fosse frutto della propria fatica ed industria de’ religosi ciò che imbandir deve le loro mense, e che invece di corone, di cannuccie, e di simili bagatelle, fabbricassero suppellettili della stanza e del refettorio, o altra cosa utile e necessaria alla vita umana». Denina, nel constatare che «la più parte de’ chierici si stillano il cervello in questioni inutili di scolastica con poca speranza di farla valere» in una realtà secolarizzata, suggerisce un uso civile del clero, affinché il suo apporto, per il bene della società, sia concreto e tangibile. «Noi abbiamo ogni giorno mille pruove — scrive Denina — che i più de’ preti o non hanno occasione o non si curano di confessare, o non sono ricercati frequentemente da’ penitenti, o con poco profitto; sicché quando pure una parte de’ chierici, ottenuto il sacerdozio, non più si applicasse agli studi teologici per abilitarsi alla confessione, il servizio della chiesa non si scapiterebbe gran fatto, e il pubblico avrebbe soggetti di più capaci d’impiegarsi nell’educazione de’ giovani d’ogni condizione».

Al di là della tensione polemica, a tratti vibrante, il trattato — evidenzia Ossola — risponde rigorosamente all’esigenza dei «principi di sociabilità», alle «cagioni produttrici di pubblica felicità», al dover «contribuire alla pubblica felicità», formule queste che rinviano alla lezione di Ludovico Antonio Muratori e ai principi dell’Illuminismo.

di Gabriele Nicolò