Storie di una Napoli che non c’è più

Il cavaliere e il capitone

Giovanna Battista Eventi bambina
11 settembre 2020

Si svolgerà dal 18 al 20 settembre nelle piazze di Pieve Santo Stefano, la “Città del diario”, la 36a edizione del Premio Pieve. «Come pagine bianche» è il titolo scelto quest’anno per dare un’immagine che rispecchia un momento complesso, in cui si indugia di fronte alle certezze di sempre anche nella ricerca delle parole per raccontare una nuova storia. «Tutti noi siamo come pagine bianche e cerchiamo le parole con cui riempire il nostro racconto», spiegano gli organizzatori sottolineando che «mai come quest’anno le testimonianze custodite dall’Archivio dei diari rappresentano per il Premio la base per indagare il presente e scegliere le parole per raccontarlo». Anticipiamo un estratto dal racconto Vico Tagliaferro (memoria 1939-1952), uno degli 8 diari finalisti. L’autrice (Napoli, 1939) , prima della pensione, è stata insegnante di lingua francese. Il vincitore sarà annunciato il 20 settembre.

Nella mia città si dice — si diceva —: «’A vita è n’affacciata ‘e fennesta», e il balconcino della camera delle zie era il mio osservatorio sul mondo del vicolo. (…) Al primo piano di fronte a noi, proprio sopra al basso di Donn’Amalia, abitava il cavaliere Diomede del Cilento — così lui si presentava —, ufficiale a riposo e amico di mio nonno, che arrotondava la non lauta pensione dando lezioni di scherma.

Quando mi vedeva sul balcone, mi salutava impeccabilmente con un rigido inchino e battere di tacchi, dandomi del lei e chiamandomi signorina, e mi faceva fare il saluto col fioretto dai suoi allievi.

Questo trattamento da damigella d’altri tempi mi lusingava non poco e avrei volentieri accettato l’invito più volte ripetutomi di andare da lui a imparare a tirare di scherma, se il nonno non avesse opposto un severo divieto, a causa delle pretese eccessive tendenze alla galanteria del cavaliere. Quest’ultimo era comunque di casa da noi, poiché veniva spesso al pomeriggio a fare una partita a carte col nonno. A volte si univa a loro mia zia Aurelia, la cui concentrazione nel gioco era però già in partenza compromessa dalle divertite aspettative di una probabile telefonata del “Comando”.

Questo misterioso “Comando” si metteva infatti all’improvviso in comunicazione col cavaliere, senza bisogno di apparecchi telefonici o di cavi telegrafici, e lui scattava ad un tratto in piedi, doverosamente alla chiamata con un immediato: «Agli ordini! Vengo subito». Dopo di che si congedava rapidamente, scusandosi con i presenti: «Perdonate, è il Comando. Purtroppo devo andare». In queste occasioni, zia Aurelia rischiava di essere colta da attacchi irrefrenabili di riso nervoso, che cercava disperatamente di contenere fissando con ostinazione il cipiglio minaccioso del nonno, il quale poi, una volta che era sicuro di non potere più essere sentito dal cavaliere, commentava per metà arrabbiato e per metà ridacchiando nella barba: «Benedett’uomo, è pazzo come un cavallo!». Il tenente intratteneva anche un altro strano tipo di comunicazione, di genere parapsicologico, con le anime delle sue sorelle defunte, che lui chiamava «gli enti» e che diceva gli apparissero sotto forma di due farfalline, che ogni tanto venivano a recargli avvertimenti e consigli. (…)

Mia zia Bice lavorava come direttrice di una piccola fabbrica di guanti nel confinante popolare rione della Sanità e mia madre e io andavamo spesso a prenderla all’uscita, quando veniva a casa per pranzo. Mi piaceva molto attraversare quel vecchio pittoresco quartiere. Gli edifici, tutti diversi gli uni dagli altri e spesso in cattivo stato di manutenzione, ospitavano folti gruppi familiari che dalle poche stanze tracimavano immancabilmente sui balconi o sui terrazzini sempre pavesati di biancheria stesa ad asciugare. Nelle sere d’estate si ritiravano i panni ormai asciutti per fare spazio alla tavola, intorno alla quale la famiglia si sarebbe seduta prima per cenare e più tardi per attendere, tra qualche chiacchiera e qualche canzone, che la notte rinfrescasse le stanze di quel minimo indispensabile per poter pensare di andare a dormire.

Il rione Sanità non si presenta oggi molto diverso da quello che conoscevo nella mia infanzia, con le botteghe la cui variopinta e variegata mercanzia è largamente esposta all’esterno, occupando quasi totalmente l’esiguo spazio dei marciapiedi, con i colori, le voci, i richiami, l’andirivieni continuo di vicoli, di uomini e donne di ogni ceto e condizione, e soprattutto di “guagliuni” impegnati nel gioco o in più serie o misteriose attività. (…)

Erano giornate piene per me quelle delle feste di Natale. Accompagnavo le zie a far la spesa per il periodo natalizio e le botteghe erano uno spettacolo, con le mostre che straripavano sulla strada, in particolare quelle dei [?] con le file di lampadine che illuminavano la merce di tanti colori, con la frutta esotica e i sacchetti di frutta secca, e le fronde di pungitopo, e di lauro e di vischio.

Al Vico Tagliaferro, come in altre strade di Napoli anche i bottegai vegliavano tutta la notte della vigilia (…). E quindi la strada era illuminata a giorno tutta la notte e si sentivano le voci, gli scambi di battute, e le risate di quelli che a turno vigilavano tenendosi svegli con quattro chiacchiere e qualche bicchiere che, insieme ai bracieri accesi sulla via, aiutavano a combattere il freddo.

Un acquisto molto impegnativo era quello del capitone. Ci andavano zia Bice e zio Geppino, il quale un anno diventò il protagonista di una scena epica. Lui camminava tranquillo per la Galleria Umberto e stringeva sotto il braccio il cartoccio con il capitone. Ad un tratto si accorse che il cartoccio si era afflosciato, si guardò intorno e vide a pochi passi di distanza il capitone che cercava disperatamente una via di fuga. Anche altri passanti si accorsero dell’accaduto e insieme allo zio si misero all’inseguimento.

di Giovanna Battista Eventi