Riflessioni sul creato alla luce della «Laudato si’»

Fede e cura della casa comune

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05 settembre 2020

«Papa Francesco ci chiama, ancora una volta, a custodire il creato e a ritornare ad ascoltare la terra». Queste le parole del sottosegretario del Sinodo dei vescovi, Fabio Fabene, nel presentare la XV Giornata nazionale per la custodia del creato che si svolge a Montefiascone, sabato 5 settembre. L’evento, dal titolo «Indietro non si torna. Un nuovo umanesimo alla luce della Laudato si’» e organizzato congiuntamente dall’onlus Greenaccord e dall’associazione Rocca dei Papi presieduta da monsignor Fabene, si articola in due momenti: la mattina è dedicata alla riflessione sul rapporto tra fede ed ecologia, e su scienza, ecologia e casa comune, con l’intervento, tra gli altri, del vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino, della cui relazione pubblichiamo ampi stralci; nel pomeriggio si affronta invece il tema dell’ecologia integrale e delle emergenze ambientali e sociali lette in un’ottica non contrapposta.

Il titolo dell’intervento, che mi è stato assegnato, «Fede e cura della casa comune», coglie un aspetto essenziale dell’enciclica Laudato si’, che sembra scontato quanto poco tenuto in considerazione: l’ecologia, o meglio la cura della casa comune, non è solo una scienza umana che riguarda le condizioni dell’ambiente materiale in cui viviamo e in cui esiste l’universo, ma ha a che fare anche con la fede. Solo questo stretto legame permette di scrivere per la prima volta un’enciclica che ha al suo centro il tema dell’ambiente. Da qui emergono una coscienza e una constatazione. La coscienza ci inserisce nella perenne riflessione della Chiesa, per cui la fede vive e cresce nella storia, e non è qualcosa di astratto o di concettuale, nonostante si esprima con dei concetti e delle verità. La constatazione è altrettanto semplice quanto dimenticata ancora oggi nella vita della nostra Chiesa: fino all’enciclica questo legame non era diventato neppure materia di riflessione compiuta per la nostra Chiesa. Del resto, non è la prima volta che la Chiesa ci indirizza verso un pensiero che cerca di rispondere ai segni dei tempi, che solo nell’ottica di una fede incarnata nella storia può avvenire. Per restare agli ultimi cento anni o poco più, le cosiddette encicliche sociali sono forse gli scritti magisteriali che più hanno risposto alle domande del tempo in cui venivano prodotte. Per citarne solo alcune: dalla Rerum novarum di Leone XIII (1891), che affrontava il tema della questione operaia, passando attraverso la Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963), fino alla Populorum progressio di Paolo VI (1967), alla Centesimus annus di Giovanni Paolo II (1991) e infine alla Caritas in veritate di Benedetto XVI (2009)1. Papa Francesco all’inizio dell’enciclica inserisce la sua riflessione proprio all’interno della riflessione dei suoi predecessori, individuando nelle loro parole i prodromi di ciò che egli proporrà come pensiero articolato e nuovo.

Nei primi capitoli della Genesi appare con evidenza la dipendenza del creato da Dio. L’essere umano è “formato” dalla “polvere” della terra e vive per il soffio vitale di Dio. Pertanto, fin dall’origine egli è visto come una relazione: con Dio anzitutto mediante il soffio vitale, con il prossimo (maschio-femmina; poi fratelli) e con il creato intero, di cui è solo una parte. La “polvere” lo lega intimamente alla terra (adamah), su cui egli (adam) abita. Ci stiamo accorgendo sempre di più che questa semplice verità è parte del nostro esistere: i danni ambientali hanno conseguenze sull’essere umano e sul creato. Scopriamo con chiarezza che “tutto è connesso”. La pandemia che ancora affligge il mondo ci ha resi più coscienti di questa verità. Un virus maligno ha attraversato il mondo, non ha chiesto il permesso di soggiorno a nessuno, ha valicato confini di popoli e continenti, ci ha sorpreso nella nostra fragilità, indifesi, impreparati. Ci credevamo padroni e ci siamo ritrovati sottomessi, impreparati a rispondere nonostante il progresso della scienza.

Se tutto è connesso, siamo chiamati a scoprire il senso della relazione che ci lega. Il primo racconto della creazione, come viene abitualmente chiamato dagli studiosi, ci descrive il creato come un’armonia di differenze: luce/tenebre; acque superiori/acque inferiori; cielo/terra; terra asciutta/mare; giorno/notte; animali acquatici/animali terrestri; maschio/femmina. Gli esseri creati vivono in armonia proprio per la loro differenza. Se essi non rispettano l’esistenza della loro differenza e si mescolano, si ritorna al caos originario, si innesta cioè un processo di de-creazione, come viene narrato nel racconto del diluvio, dove a causa della violenza umana si innesta un processo che fa tornare il creato al caos, al disordine cosmico. Non è ciò a cui stiamo assistendo nel mondo di oggi quando parliamo di violenza contro i poveri e contro la terra, come ci ricorda Papa Francesco parlando del grido dei poveri e del grido delle terra? Non possiamo non pensare all’Amazzonia dopo quel sinodo così profetico. La pandemia non ha fatto che aggravare un territorio già sofferente, dove l’avidità, la corruzione, la violenza e la riduzione in schiavitù fanno il resto fino a distruggere le preziose risorse di quel territorio.

Dio affida all’essere umano un compito: «Riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Genesi, 1, 28). Oltre al compito della generazione, cioè di permettere la continuazione della vita, viene affidato all’uomo quello di “soggiogare e dominare”. Questo compito divino è stato spesso interpretato come l’azione di governo e dominio assoluto. L’essere umano avrebbe avuto da Dio, secondo la Bibbia, il compito di dominare sugli altri esseri viventi. Ciò sarebbe stato interpretato nella tradizione della Chiesa come un dominio assoluto, come Papa Francesco ha ben notato parlando di “eccesso antropocentrico” (Laudato si’, 116). Tuttavia, il verbo ebraico, in particolare il secondo (rdh) viene utilizzato per chi ha una funzione di guida e governo (Isaia, 14, 2, 6; Ezechiele, 29, 15; Salmi, 72, 8; 110, 2), ma anche per il pastore che si occupa del gregge, come in Ezechiele, dove si legge in un testo che si rivolge ai cattivi pastori: «Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza» (Ezechiele, 34, 4). Il verbo contiene quindi un atto che implica il compito di occuparsi di qualcuno e di guidare, ma non indica di per sé sottomissione. In ogni caso questo primo compito è da leggere con quanto Iddio affida all’uomo dopo averlo posto nel “giardino dell’Eden”: «Dio lo pose nel giardino di Eden per coltivarlo e custodirlo». I due verbi ebraici indicano un compito positivo, che si armonizza con quanto affidato all’uomo nel capitolo precedente. “Coltivare e custodire” sono due azioni complementari: non si può solo coltivare né solo custodire. L’interazione tra le due azioni è fondamentale perché la terra possa produrre ciò per cui il Signore l’ha creata. Ad esempio, una coltivazione intensiva di colture che prevedono il disboscamento e a cui seguono l’infertilità del terreno dopo alcuni anni sono contrarie al “custodire”, perché rendono il terreno improduttivo oltre ad aver distrutto la foresta. La situazione di quanto sta avvenendo in Amazzonia o in altre foreste tropicali, come in Indonesia o nei Paesi dell’Africa equatoriale, è una chiara conseguenza dell’abuso delle risorse del creato.

Il valore di una lettura della Parola di Dio che tenga assieme i testi e li sappia interpretare nella storia risulta essenziale per non cadere nel fondamentalismo o in un’apologetica, che spezzetta la Bibbia senza coglierne le connessioni. I primi capitoli della Genesi contengono una saggezza che ha molto da insegnare anche al nostro tempo, pur rispondendo a situazioni diverse. L’essere umano può “coltivare e custodire” il creato solo nella misura in cui accetta di non esserne padrone assoluto, ma di considerarsi all’interno di un mondo in relazione. Quel giardino rappresenta il luogo della possibilità di incontrarsi e di costruire una relazione positiva con l’intero creato, dove l’essere umano è inteso come intimamente connesso con il resto degli esseri viventi proprio dalla sua origine. Capiamo il non senso dei muri che separano e dividono. Perciò proprio nel “coltivare e custodire” egli realizza sé stesso. Il tentativo di porsi al di sopra, di esaltare l’identità contro la diversità, nega questo compito antropologico e provoca una reazione a ogni livello, descritta nel prosieguo dei primi undici capitoli della Genesi, che culminerà nel racconto della torre di Babele e nella dispersione dei popoli.

Dopo il racconto del diluvio il testo biblico si sofferma sulla distribuzione dei popoli sulla terra e sulla loro dispersione. Ci si potrebbe chiedere: Dio vuole unità o dispersione? La conclusione dei primi undici capitoli della Genesi narra la storia della torre di Babele, in realtà costruzione di un tempio alla divinità simile a quello che Israele in esilio poteva contemplare a Babilonia: enormi e alti edifici a più livelli attraverso cui si accedeva al culto della divinità. Sono chiamate ziqqurat. In essa l’autore, che scrive non lontano da questo periodo storico, cioè l’esilio babilonese (vi secolo), cercando di rileggere la vicenda del suo popolo, vede il tentativo dell’umanità di creare un’unità sotto un unico potere, un po’ come quello di Dio, a scapito della differenza dei popoli e delle lingue. Ma questo tentativo è fallimentare. Dio non accetta un’unità che omologa tutti sotto lo stesso potere. Per questo disperde i popoli, vuole cioè che ci sia unità ma nella differenza. Del resto, così era stato già descritto nei capitoli precedenti della Genesi, che parlavano della divisione dei popoli (Genesi, 10). Il diluvio mostrava il ritorno al caos nel creato come la torre di Babele mostra il ritorno al caos nelle relazioni tra individui e popoli, con la conseguente impossibilità a vivere insieme, quando non si accetta di vivere l’unità nella diversità

L’ultimo capitolo dell’enciclica titola: «Educazione e spiritualità ecologica». Papa Francesco scrive che «la crisi ecologica è un appello a una profonda conversione interiore» (Laudato si’, 217). E più avanti: «La spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità della vita, e incoraggia uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di gioire profondamente senza essere ossessionati dal consumo» (Laudato si’, 222). Dimensione profetica e contemplativa sono strettamente collegate, perché la profezia nasce da un’intima unione con Dio, quindi dalla capacità di ascolto della sua parola che va collocata nella storia perché parla nella storia. Se le nostre comunità cristiane sono a volte poco attente di fronte alla sofferenza del creato è anche la conseguenza di un ascolto distratto della Parola di Dio e di una scarsa coscienza di una fede che vive nella storia e non nel privato di casa propria e neppure del proprio gruppo e della propria realtà ecclesiale. Prendiamo come modello il profeta Elia: uomo di Dio, si scontra con la sofferenza del creato (siccità e carestia), quella dei poveri (la vedova di Sarepta), l’illusione dei falsi profeti. Tuttavia anch’egli sente la minaccia della morte e fugge. Solo dopo “essere uscito” dalla caverna dove aveva trovato rifugio sul monte, incontra di nuovo Dio che gli parla in modo del tutto inaspettato: non nel vento impetuoso, non nel terremoto né nel fuoco, ma solo «in una voce di silenzio leggero» (qol demamah daqqah, 1 Re, 19, 12). Nella contemplazione di Dio che gli parla Elia può prendersi la responsabilità di guidare la storia. Non basta fare, agire, perché questo non può che essere la conseguenza di chi si mette di fronte al Signore. È significativo che tutto il primo racconto della creazione sia costruito sul rapporto tra primo giorno, quarto giorno e settimo giorno. Il testo dice che Dio «benedisse e consacrò» il settimo giorno. Solo nella contemplazione dello shabbat la creazione raggiunge il suo compimento, e la creazione ha bisogno dello shabbat, dove la terra si riposi e l’essere umano riconosca che tutto ha origine in Dio, e per questo lo lodi. Nella lode del sabato si realizza ogni volta l’opera di Dio con il concorso dell’opera dell’uomo. Questa è la vera profezia che noi possiamo offrire perché il creato continui ad esistere. È chiaro che per noi cristiani si tratta del tempo della domenica e dell’urgenza di recuperarne il senso contemplativo, perché interrompendo la frenesia della nostra attività consumista riconosciamo che non siamo anzitutto gli artefici del progresso e del creato, ma all’origine c’è Dio, e che il creato ha bisogno del suo riposo. Forse non ci siamo resi conto che una delle conseguenze positive, forse poche, del lockdown ha avuto come oggetto proprio il creato, la terra, i mari, i fiumi. I dati dicono che persino il movimento tellurico del suolo terrestre è diminuito in questo tempo del 50 per cento proprio per la diminuzione del traffico e dell’attività umana.

Solo in uno spazio di libertà dal proprio fare e costruire, l’essere umano acquista lo sguardo necessario per addentrarsi nella sofferenza del creato, che si unisce a quella dei poveri. La Laudato si’ coglie l’unità che esiste tra “grido della terra e grido dei poveri”, che manifesta quanto Papa Francesco vuole comunicarci parlando di ecologia integrale: «Oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri» (Laudato si’, 49). Questo grido ci proietta verso il futuro, verso quella liberazione espressa nella lettera ai Romani, quando Paolo parla del gemito della creazione (Romani, 8), e in Apocalisse, 21, laddove si annuncia che il Signore farà nuove tutte le cose. Davanti al dolore del nostro tempo, alla malattia e alla morte, al gemito della creazione e dell’umanità, soprattutto dei più poveri, nonché alle conseguenze sociali e economiche provocate, la Bibbia ci proietta verso il futuro con speranza, non per allontanarci dalla sofferenza del presente, ma per indicarci una risposta spirituale che può davvero aiutarci a risollevare l’umanità perché sia davvero un nuovo inizio e non solo, come si usa dire, una ripresa che lascia tutto come prima, o magari peggio di prima.

di Ambrogio Spreafico