La testimonianza di una buddista thailandese che ha scelto di abbracciare la fede cattolica

Dalla pagoda al monastero delle clarisse cappuccine

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11 settembre 2020

«Non lo dimenticherò mai. Era la notte del venerdì santo del 2000 e mi trovavo nella cappellina della monache clarisse cappuccine di Bang pong, Thailandia, in adorazione davanti al crocifisso che quel venerdì sostituisce il tabernacolo sugli altari di tutte le chiese cattoliche. Ero sola e ripensavo agli ultimi, particolarissimi avvenimenti della mia vita. Figlia di cinesi buddisti emigrati in Thailandia, vivevo a Bangkok e lavoravo in banca con uno stipendio che mi permetteva di mantenere la mia numerosa famiglia. Conducevo una vita tranquilla, serena. Avevo fatto amicizia con un giovane cattolico che mi parlava della sua religione, spingendomi alla conversione perché volevamo sposarci. “Se dovessi convertirmi alla tua fede — gli dicevo — lo farei perché credo in Dio, non perché voglio sposarmi con te”. Andavamo in chiesa insieme e mi fermavo a guardarlo inginocchiato sul banco, assorto e indifferente a quanto gli accadeva attorno. Io pensavo al mio Budda che, al ritorno dalla chiesa, andavo a venerare nel primo tempio che trovavo sulla strada, offrendo incenso e petali di fiori rossi.

«Ero credente? Avevo imparato il bali-sansagri, la lingua sacra usata dai miei connazionali per pregare; ogni settimana riempivo il bat (ciotola) con cui i monaci raccolgono il cibo lungo la strada; di tanto in tanto mi affacciavo in qualche tempio, specialmente in quelli vicino alla mia casa. Tutto qui. Nello stesso tempo frequentavo da sola una chiesa cattolica per chiedere perdono a Dio dei miei peccati: il mio fidanzato mi diceva che, rifiutando di convertirmi al cattolicesimo, avevo peccato. Volevo essere perdonata. Frequentai un corso di catechismo e un anno dopo ricevetti il battesimo.

«Un giorno lessi su un giornale che una monaca cattolica aveva bisogno di aiuto per essere curata e ogni mattina le portavo il mio contributo all’ospedale. Era assistita amorevolmente da alcune suore, compresa qualcuna straniera. Non credevo ai miei occhi e mi chiedevo come si potessero avere tante premure per una persona estranea! Lo chiesi alla madre badessa, che mi domandò se mi interessasse la vita consacrata. “No; sono una peccatrice”. Mi rispose che anche le peccatrici possono farsi monache. Tre mesi dopo, la malata morì e chiesi di poter passare qualche tempo nel monastero. Vi restai due settimane, osservando attentamente la vita delle monache anche nelle piccole cose che si fanno in tutte le famiglie. Mi piacque, ma non dissi nulla a nessuno.

«All’avvicinarsi della Pasqua chiesi a mia sorella di accompagnarmi al monastero delle monache; venne anche mia madre, convinte che volessi ritirarmi per pregare e ottemperare, così, al Kheāpān s’ā (Quaresima) tempo di preghiera e penitenza previsto per i buddisti. Mi feci portare nel monastero delle monache clarisse cappuccine di Bang pong, uno dei sei monasteri che le religiose cappuccine hanno in Thailandia con 88 monache. Mi mancavano tante cose, ma scoprii che potevo farne benissimo a meno, compresa l’aria condizionata. Mi piaceva molto pregare e vivere insieme alle suore. Ero veramente felice. Alla vigilia del mio ritorno in famiglia, la madre badessa mi chiese se volevo restare nel monastero o andarmene. Risposi che non avevo ancora deciso: nel mio cuore c’era una guerra tra il desiderio di restare con Gesù e quello di tornare in famiglia e sposarmi.

«Arrivò la notte di “quel” venerdì, quando mi trovai da sola davanti al Crocifisso illuminato da poche candele. C’era un’atmosfera surreale. A un certo punto mi parve di sentire una voce: “Perché vuoi lasciarmi?”. Capii che era la voce di Gesù e risposi: “Signore, se qualcuno ti abbandonerà, non sarò certamente io”. Passai la notte in bianco e la mattina del sabato santo corsi dalla badessa per dirle che sarei rimasta in monastero. Per sempre. Ne parlai in famiglia e in ufficio: in famiglia (dove c’era mio padre colpito da un ictus) scoppiarono tutti a piangere, soprattutto mia madre; in ufficio mi dissero che ero diventata pazza. “Come; tu, bella, brava e con un lavoro che ti permette di avere tutto dalla vita, lasci tutto? Pazza; solo una pazza può far questo”».

Quella pazza, che si chiamava Orawan Larpppipitmongkol, è oggi suor Anastasia e vive nel monastero multietnico delle monache clarisse cappuccine della Garbatella, a Roma, iscritta alla facoltà di Spiritualità Francescana presso la Pontificia Università Antonianum di via Merulana. Finito il corso, tornerà fra le sue consorelle thailandesi che la aspettano a braccia aperte.

di Egidio Picucci