«Sunset Boulevard» e «Psycho» compiono rispettivamente settanta e sessant’anni

Cuore di tenebra

«Sunset Boulevard»
08 settembre 2020

Il personaggio principale della storia versa in difficoltà economiche che finiscono per fargli avere problemi con le autorità. In fuga dalle proprie responsabilità, imbocca una deviazione con la macchina e finisce in un luogo isolato dominato da una grande e vecchia casa, dove si possono trovare cimeli del passato e cose bizzarre come relitti animali. Qui vive da sola una persona disturbata che, inaspettatamente, porterà alla morte il protagonista fuggitivo. Il film, diretto da uno dei grandi registi europei in trasferta permanente a Hollywood, è un capolavoro del suo genere e ne rinnoverà i canoni. Di che film si tratta? No, non è Psycho. O meglio, non solo. Esattamente dieci anni prima del capolavoro hitchcockiano, c’era già stato un film con lo stesso assunto narrativo, nonché la stessa carica rivoluzionaria: Sunset Boulevard di Billy Wilder.

Il film di Wilder e quello di Alfred Hitchcock — di cui quest’anno ricorrono rispettivamente il settantesimo e il sessantesimo anniversario — raramente vengono affiancati, eppure contengono impressionanti analogie. Prima fra tutte, la strada sbagliata.

La deviazione che porta a scoprire un angolo di vecchia America che sembrava sepolto e dimenticato. E che invece, risvegliato suo malgrado, si dimostrerà non solo insospettabilmente vitale, ma anche aggressivo e letale. Alla base della lavorazione dei film, anche contesti storici simili emanati dalla Guerra fredda, e che inevitabilmente ne hanno influenzato l’atmosfera. L’imminente guerra di Corea — un conflitto già poco compreso dall’opinione pubblica ma accettato in virtù dell’ancora fresca impresa antinazista — nel primo caso, le tensioni crescenti nel Sud-est asiatico che porteranno alla guerra del Vietnam nel secondo. Entrambi gli scenari saranno occasione per degli esami di coscienza collettivi molto profondi e capaci di investire le basi stesse della vita americana. Negli anni Sessanta l’autoanalisi nazionale verrà elaborata in modo conclamato e porterà a sconvolgimenti clamorosi, anche se ai tempi di Psycho è ancora sotto forma di presagio, negli anni Cinquanta rimarrà invece sottotraccia, ma porterà a un primo, silente scollamento fra opinione pubblica e ideologia nazionale, cominciando già a contaminare l’immagine innocente che l’America ha di se stessa.

I due film, con le loro realtà orribili e tipicamente americane nascoste sotto un velo di normalità, finiscono dunque per essere una metafora dei loro tempi. Ma quanto c’è di voluto, anche solo a livello inconscio?

Sunset Boulevard è un dramma sullo sfondo del mondo del cinema che ha al centro uno dei temi prediletti da Wilder, la prostituzione morale, che porta i suoi protagonisti — come il personaggio di Jack Lemmon in The Apartment — a offrire una parte della propria vita per interessi economici. Ma il regista di origini austriache, che nel 1944 aveva già firmato uno dei paradigmi più cristallini del genere con Double Indemnity, inserisce chiaramente il racconto in una cornice estetica e narrativa da film noir. Il bianco e nero pieno di ombre che tagliano diagonalmente le inquadrature è quello post espressionista del cinema nero, e l’assunto narrativo rientra nello stesso cliché. Il racconto parte infatti da un flashback, ovvero l’espediente narrativo per eccellenza del genere in cui tutto è già finito, e i fatti non possono che essere rivissuti a ritroso, con il patema del rimorso per ciò che si poteva salvare. Altrettanto tipici del cinema nero sono poi i due funzionari di una ditta di automobili incaricati del recupero crediti, che all’inizio del film entrano addirittura in casa del protagonista Joe Gillis per riavere le chiavi del suo veicolo, visto che questo non è mai stato pagato per intero, e poi continueranno a braccarlo rimanendo una minaccia lungo tutto il film.

Il noir, che nel 1950 aveva già concluso la sua fase più vitale, aveva dimostrato di essere un genere fortemente critico nei confronti dello stile di vita americano consolidato. Non a caso, vari sceneggiatori e registi che vi si erano dedicati avranno problemi con la commissione per le attività antiamericane voluta dal senatore McCarthy. In questo tipo di film, l’individualismo su cui si basa la società statunitense viene rappresentato come un caotico coacervo di interessi personali che sfocia spesso nella piccola criminalità da una parte, e da una forza coercitiva paraistituzionale e particolarmente opprimente dall’altra. In questa rappresentazione, la tanto idealizzata libertà dell’individuo viene infatti contratta in misura significativa da entità private che si ergono a istituzioni — come le compagnie assicurative, presenza costante di tutto il noir prima maniera — o che in forza della loro potenza economica possono mettere in campo misure pesantemente coattive, ossia quel che succede al nostro Joe Gillis.

Ma una critica alle aberrazioni dell’individualismo e del capitalismo più sfrenato la troviamo anche nella descrizione della casa e dello stile di vita della vecchia star del cinema che il protagonista è destinato a incontrare. Era dai tempi di Citizen Kane e della Xanadù dell’eponimo protagonista che non si vedeva sugli schermi un tale monumento all’avidità e alla megalomania. Non si arriva magari a quel gigantismo, ma l’atmosfera di spreco e di decadenza barocca ai confini del delirio è la stessa, a partire dal funerale per un babbuino a cui Gillis assiste incredulo. Attraverso il personaggio di Norma Desmond, interpretato dalla vera star del cinema muto Gloria Swanson, Sunset Boulevard risveglia il ricordo non così lontano eppure già sorprendentemente offuscato — anche perché forzatamente rimosso — della Hollywood-Babilonia, ovvero il mondo del cinema americano che va dai primordi al culmine della fine degli anni Venti. Un mondo fatto di lusso sfrenato e di stili di vita improntati a volte alla più sfacciata lascivia. Senza entrare nei dettagli di alcune di queste esistenze moralmente spericolate, è sufficiente dire che il codice di autocensura Hays nacque alle soglie degli anni Trenta proprio per ripulire agli occhi dell’opinione pubblica un’immagine del cinema che si stava facendo rapidamente sempre più torbida a causa degli stravizi e degli abusi delle star, e che soprattutto dopo l’inizio della Grande Depressione non poteva essere più tollerata.

Anche se Wilder voleva probabilmente fare solo una sorta di tragica satira sul mondo del cinema che fu, anticipando tutto il filone dei film che si occuperanno del lato oscuro del mondo dello spettacolo, da What Ever Happened to Baby Jane a Mulholland Drive, l’immagine più forte di Sunset Boulevard è proprio questo cuore di tenebra del sistema americano che allunga le sue ombre fino ad ammantare l’onesta vita borghese dello sceneggiatore Gillis e della sua nuova fidanzata e collega Betty, la quale si contrappone all’angelo della morte Norma in una dicotomia femminile di nuovo tipicamente noir. Mentre la contrapposizione fra bad capitalism e good capitalism è un retaggio della commedia americana anni Trenta, genere in cui Wilder si era fatto le ossa come sceneggiatore.

Hitchcock nei presupposti è più elementare, più metafisico, non abbraccia mai esplicite considerazioni sociologiche. Eppure Psycho finirà per anticipare tanti elementi di un cinema viceversa molto politico come sarà l’horror americano di stampo realistico per almeno un ventennio, a partire da piccoli gioielli del low budget fra serio e faceto come Two Thousand Maniacs (Herschell Gordon Lewis, 1964) e Spider Baby (Jack Hill, 1967) fino al cinema di Tobe Hooper e del Wes Craven prima maniera. La casa dallo stile gotico che rimanda ai padri fondatori, gli animali impagliati che rievocano la sopraffazione della natura e la violenza gratuita da parte dei pionieri, lo svilimento del progresso in favore di una wilderness che si risveglia attraverso l’immagine dell’automobile della protagonista che finisce in fondo a uno stagno, e poi la casa che svetta sulla collina, simbolo antico dell’America delle prime generazioni e del suo illuminato isolazionismo.

Negli horror successivi, questo viaggio a ritroso nella storia nazionale rappresenterà esplicitamente la ricerca di quel peccato originale di violenza che avrebbe portato a un presente di pulsioni autodistruttive. Nel 1960, la discesa agli inferi del Vietnam e degli attentati illustri non si era ancora concretizzata, eppure Psycho intercetta evidentemente gli albori di questa sofferta quête. Dietro la vicenda del folle Norman Bates, non c’è solo la descrizione di un caso psicanalitico da manuale, oltreché un riferimento alla terribile storia vera del serial killer di qualche anno prima Ed Gein, ma — anche qui — l’immagine di un’America vetusta e gelosa di un insediamento che difenderà ai danni delle nuove generazioni e della modernità.

Da un punto di vista strettamente cinematografico, poi, Sunset Boulevard e Psycho finiscono per assomigliarsi in virtù della morte del protagonista, rappresentata in modi clamorosamente provocatori. Nel film di Wilder scopriremo solo alla fine che Gillis era già morto all’inizio del racconto, nonostante fosse sua la voce narrante lungo tutto il flashback. In Psycho, invece, Hitchcock si sbarazza addirittura della protagonista a metà film. In entrambi i casi, si riconosce una volontà sottile ma incisiva di togliere allo spettatore l’identificazione con il punto di vista del protagonista in favore di una visuale più esterna, che è quella del regista.

Tentativi, insomma, di far passare anche presso il grande pubblico un cinema che sia d’autore e legato agli aspetti artistici della realizzazione, piuttosto che non il solito prodotto commerciale hollywoodiano, in cui prevalgono emozioni più facili dovute all’immedesimazione dello spettatore con i personaggi. Una battaglia che ai tempi di Wilder era ancora in buona parte prematura, ma che con Hitchcock e il suo Psycho segnerà un passo decisivo per l’avvento del cinema d’autore anche nel cinema americano.

di Emilio Ranzato