Contro il rischio di un’educazione “in serra”

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12 settembre 2020

All’ultimo piano di un palazzo dalla parte di via Agonale, una delle strette vie che introducono a piazza Navona, Jacopo Mastrangelo ha fatto quello che i giovani sanno fare magnificamente, mettere senso e restituire bellezza alla vita. Ha atteso che terminassero i rintocchi di una campana in una città deserta, per dare il via a un’esecuzione magistrale di Deborah’s Theme di Ennio Morricone. La continuità e i lasciti tra generazioni, anche e soprattutto senza parentele, nascono attraverso le condivisioni culturali e spirituali. Era la fine di marzo, le tenebre della pandemia avevano avvolto la Terra. L’eco mediatica dell’implorazione di Papa Francesco, nel tramonto livido del 27, manteneva intatta la sua onda d’urto. Nella pandemia, come nella guerra, tra le tante domande alle quali non sappiamo rispondere, una soprattutto pretende una risposta. La domanda è: «Come salviamo la generazione dei nostri figli?». L’atto creativo di Dio è espressione di generazione, lineare e temporale. Allo stesso modo del contadino che, con un gesto rituale, spinge nell’aria un pugno di semi e affida alla terra l’attesa di nuovi raccolti. Legare e sciogliere, tenere per mano e liberare, cos’altro è questa nostra storia di creature? Quando i provvedimenti dell’autorità sanitaria ci hanno indotto al distanziamento sociale e alla sospensione di ciò che è la vita collettiva, del suo reflusso all’interno della vita domestica, si è determinata, tra le tante asfissie, la gravità dell’interruzione della frequenza scolastica per i nostri figli e nipoti. La sostituzione con forme alternative di modalità formative, prima fra tutte la didattica a distanza, ha rappresentato un passaggio meritevole di attenzione e che, spesso, sotto il profilo della formazione umana, ha rappresentato un’esperienza interessante da coltivare. Al contempo e da subito, sono emerse gravi criticità. La grande disparità nella possibilità di utilizzo di strumentazioni informatiche. La povertà è una condizione dura che non perdona, soprattutto chi la indossa. Famiglie numerose con un solo computer in casa, hanno visto i figli scivolare giù nel rendimento. Vale sempre quel detto popolare che «chi s’alza primo si veste», così molti ragazzi sono rimasti nudi, scolasticamente nudi. Il tempo scuola, inteso in questo caso come erogazione didattica scandita secondo frazioni temporali e disciplinari, ha subito una forte compressione. Di più, in alcune realtà deprivate dell’Italia, anche l’impossibilità di fruire della mensa scolastica, ha interrotto la regolarità del pasto, con il connesso squilibrio degli apporti proteici e calorici necessari per una corretta alimentazione dei bambini. Né possiamo sottovalutare che la maggiore disponibilità di tempo davanti alle postazioni informatiche ha incrementato i collegamenti con siti pornografici da parte degli adolescenti. Noi rischiamo di perdere una generazione. Il ritorno a scuola costituisce non soltanto la ripresa della vita ordinaria, perché la normalità è un bene prezioso, ma anche la constatazione di quanto sia vera l’antica affermazione di Aristotele che l’uomo è un animale sociale. Fuori dalla relazione in presenza, dalla materia fisica dei corpi, delle voci, degli sguardi, l’esperienza formativa rifluisce verso una formazione in serra. La distanza ai tempi della pandemia è una lontananza costrittiva. Significa scegliere di abitare un vuoto privo di calore e umanità.

di Rosario Salamone
Direttore Ufficio per la pastorale scolastica della diocesi di Roma