La foresta silenziosa Etiopia

Almea e l’eredità della nonna: “Dal ristorante alla mensa dei poveri”

Alcune donne ricevono aiuto al Centro San Giuseppe (da La goccia.it)
26 settembre 2020

Il cibo poi le docce, i letti, la scuola.
E il Governo le affida i ragazzi di strada


A un certo punto della sua vita Almea Bordino sente che cucinare nel suo ristorante di Addis Abeba non le basta più, e che deve aiutare i poveri e i disperati ammassati sui marciapiedi, chi non ha nulla da mangiare, né la possibilità di sfamare i figli: ed è così che comincia a distribuire cibo e acqua a chi non ha nulla. È il 2002: Almea si divide tra la sua attività di ristorazione, i figli piccoli e l’aiuto ai più poveri. Va avanti in questo modo fino al 2014, poi chiude il ristorante e da lì si dedica esclusivamente agli ultimi.

Si trasferisce in una casetta di poche stanze nel pieno centro della capitale dell’Etiopia, il secondo Paese più popoloso del continente africano, due anni dopo la fine dell’ultimo conflitto con l’Eritrea che costò la vita a 50mila persone, una guerra scoppiata per un territorio conteso, che nonostante il disgelo e la firma di un faticoso accordo, si conclude soltanto nel 2018 con lo storico abbraccio tra il primo ministro etiope Abiy Ahmed (insignito del premio Nobel per la pace) e il presidente dell’Eritrea Isaias Afewerki. È l’anno in cui ad Addis Abeba i poveri aumentano a vista d’occhio, anche col flusso degli eritrei. La storia di questa donna italo-etiope, bella e sorridente, oggi 53 anni e un volto da ragazza con una cascata di capelli neri, prosegue nell’estrema periferia della città, dove si sposta per avere più spazio, una casa più grande a pochi passi dagli slum abitati dai poveri che arrivavano nella capitale dalle zone rurali, espulsi dalle campagne da guerra e carestia che qui trovano però solo baracche di lamiera, fame e disperazione: in questa casa, diciotto anni fa, nel cuore della megalopoli africana, nasce ufficialmente il Centro caritativo san Giuseppe di Almea Bordino. È una mensa per i poveri, all’inizio, e Almea, insieme a un frate cappuccino, padre Tommaso Bellesi, distribuisce cibo e acqua a tutti i derelitti della città: lo fa con le sue mani, guardando in faccia i volti di uomini, donne e bambini stremati dalla fame e dalla sete, l’altra faccia della metropoli africana, che Menelik ii volle chiamare il “Nuovo fiore” dell’Africa. Una volta al giorno, ai poveri degli slum lei dà una scodella di ingiera, pane locale fatto di toff, con il wott, il sugo piccante etiope, e un po’ d’acqua.

«La povertà era intorno a me, intere famiglie di mendicanti vivevano e vivono accampate sui marciapiedi. Ho sentito il bisogno di impegnarmi per il prossimo, per i più poveri, ed è stato così che ho deciso di chiudere definitivamente il ristorante e di mettermi al servizio dei bisognosi. È il Signore che me l’ha chiesto» dice semplicemente. Passano pochi mesi e lì, in quella casa di periferia, Almea comincia a offrire altro, anche una doccia, e ascolta, cerca di capire che cosa serva a quella gente che vive in condizioni così disperate. «Serviva tutto, non solo cibo — racconta via WhatsApp Almea, finalmente a casa dopo una giornata di lavoro al Centro san Giuseppe — Quella gente chiedeva anche scuola, istruzione per i figli, consigli, assistenza, medicine, e noi iniziammo ad organizzarci per rispondere a tutti i loro bisogni». Il Centro diventa più grande, i servizi offerti si moltiplicano e anche la generosità delle donazioni, senza le quali niente sarebbe stato possibile. Oltre ai pasti, Almea riesce ad offrire docce, vestiti, assistenza medica, scuola e divise scolastiche, prestiti per piccole attività, allacci per luce e acqua, un dormitorio. Quattordici mila poveri al Centro san Giuseppe trovano aiuto e assistenza. Almea non esita a sacrificare persino la sua vita col marito (che all’inizio non capisce e impiegherà anni prima di rimettersi al suo fianco, finalmente partecipe e solidale), scegliendo di dedicarsi ai due figli piccolissimi la sera, al ritorno dal lavoro al servizio degli ultimi. All’inizio è sola col frate cappuccino, ora con loro ci sono 10 volontari e 33 dipendenti regolarmente assunti. Il suo trasporto per i deboli lo racconta così: «Sono nata ad Asmara, e da piccola vedevo mia nonna che accoglieva nella sua casa i lebbrosi, i mendicanti, i malati: li curava, li lavava, faceva loro da mangiare, scatenando le rimostranze dei figli, di mia madre che si lamentava del fatto che portassero in casa pulci e pidocchi. Ecco, da allora per me i poveri hanno rappresentato una calamita».

Adesso però qualcosa è cambiato. Il governo di Addis Abeba, che fa parte del governo federale etiope, prima ancora che scoppiasse l’epidemia di Coronavirus, ha chiesto ad Almea di occuparsi dei ragazzi di strada che sniffano colla. Sono tantissimi, sessantamila dicono le stime ufficiali, arrivano da tutta l’Etiopia, hanno tra i 10 e i 16 anni, vivono sotto i ponti e nei tombini, o alle fermate dei bus, sotto le pensiline, sono gli scarti della società. Alcuni sono sieropositivi, ci sono ragazze che si prostituiscono per sopravvivere. Sniffano colla per sopportare meglio il freddo e la fame. Sono ammassati al Blocco di Addis Abeba, periferia della città, un capannone di lamiere e niente altro, ma il governo vuole realizzare un dormitorio, per questo Almea oltre a dedicarsi ai 1.200 ragazzi che vanno a scuola, a quelli che frequentano i corsi di artigianato, ai malati di elefantiasi, ora pensa ai ragazzi di strada.Qualche intoppo si incontra. «Volevamo riunire i nostri tre centri in un unico grande edificio, ma siamo fermi. Non nascondo di essere in crisi. Mi chiedo se il Signore, con questi ostacoli, non mi stia mandando un segnale». Almea dice che la fede la aiuterà a decidere per il meglio.

di Lilli Mandara