La rassegna cinematografica «Monelli e Ribelli» a Napoli

Adolescenti che lottano

Una scena da «Dililì a Parigi» di Michel Ocelot
14 settembre 2020

«L’adolescenza è l’epoca in cui si conquista a morsi l’esperienza» scriveva Jack London ma è anche vero che con l’adolescenza, sia essa serena, difficile o tormentata, l’esperienza degli adulti si è spesso confrontata mettendo in discussione convinzioni e stereotipi. Il tema dell’infanzia e dell’adolescenza è stato modello per la letteratura, la pittura, la scultura, così come per il cinema. Lo dimostra la rassegna «Monelli e Ribelli» in corso a Napoli, al Museo e al Real Bosco di Capodimonte sino al 20 settembre, che presenta 6 pellicole che vanno dal film tradizionale al corto, all’animazione. Un’occasione di riflessione che si affianca a due mostre al Museo del Bosco di Capodimonte legate al tema: la prima — «Gemito, dalla scultura al disegno» — inaugurata quasi in contemporanea e fruibile sino al 15 novembre, l’altra — «Capodimonte ringrazia la Sanità» — in programma dal 17 dicembre al 18 maggio 2021, con le opere di Paolo La Motta, che molto ha interagito con i ragazzi del noto rione che fu al centro anche di una celebre commedia di Eduardo de Filippo.

Infanzia e adolescenza che nel cinema italiano non hanno mancato nel raccontare le piaghe della povertà, della vita in strada, della costante scelta fra il bene e il male, bivio al quale approdavano e continuano a farlo in troppi. Proprio dello scugnizzo si trovano commoventi riferimenti nel cinema napoletano di Elvira Notari (1875–1946) interpretato più volte dal figlio Edoardo — primo attore bambino in Italia — nella parte di Gennariello. Molto tempo dopo il neorealismo non poteva mancare di raccontare con la cruda malinconica visione di cui erano capaci i registi italiani, la vita di strada e nei bassi: alternando negli atteggiamenti di quei bambini resi adulti dalla vita, nello sguardo di volti infantili e insolenti la nascosta sete di amore e di giornate “normali”.

Indimenticabile l’opera di Vittorio De Sica che narrò in Sciuscà (1946) il crudo spaccato sociale dei piccoli che, al pari degli adulti, si guadagnavano da vivere fra i vicoli lucidando le scarpe; e ancora in Germania anno zero (1948) di Roberto Rossellini il clima di una Berlino post guerra si insinua nell’animo del tredicenne Edmund che nelle tribolazioni quotidiane si troverà a uccidere il padre malato, ponendo successivamente fine anche alla sua vita.

Pellicole che certamente hanno lasciato il segno anche alla cinematografia attuale, basti pensare a Io non ho paura (2002) di Gabriele Salvatores o agli Anni felici (2013) di Daniele Luchetti. Personaggi e trame che hanno di fatto attraversato e raccontato tempi e società diverse, bambini e ragazzi ai quali persino i cartoni animati hanno dato spazio nell’intento di coniugare spunti reali e spensieratezza di immagini. È così che «Monelli e Ribelli» propone di Michel Ocelot Dililì a Parigi dove Kanake la protagonista vive nel pieno fermento della Belle Epoque le contraddizioni politiche e sociali e l’attiva partecipazione femminile.

In Vincent (1982) di Tim Burton l’animazione si riallaccia alla letteratura, con il piccolo protagonista che si immedesima nelle figure descritte fra le pagine dei libri di Edgar Allan Poe, che legge avidamente: la pellicola segnò un nuovo corso per la Walt Disney. Le rocambolesche e surreali vicende di Mowgli abbandonato nella giungla indiana evidenziano nel Libro della giungla (1967) di Wolfgang Reitherman il rapporto fra l’uomo, gli animali e la natura. Sempre di Tim Burton Big Fish (2003) che vede intrecciarsi in Will la storia fantasiosa della sua nascita, raccontata dal padre, con la realtà che si riallaccia al funerale del genitore. Segue il film tratto dal romanzo di Charles Dickens Oliver Twist (2005) firmato da Roman Polanski, ambientato nella Londra della rivoluzione industriale con il protagonista che trova nella banda di piccoli delinquenti quel senso di famiglia mai avuto, in un alternarsi fra bene e male. Di Martin Scorzese Hugo Cabret (2011) dove il protagonista, orfano affidato allo zio, in una vita di sotterfugi troverà l’amore per la coetanea Isabelle. Termina la rassegna cinematografica Grand Hotel Budapest (2014) pellicola di Wes Anderson che si svolge fra le pareti di un surreale albergo di un’immaginaria Europa dell’Est. Può forse apparire strano aver abbinato all’arte di Gemito e La Motta anche cartoni animati ma, come sappiamo, non conta come si narrano i fatti ma ciò che della vita reale si intende testimoniare. Agli antipodi raffigurativi ecco che gli scugnizzi, modelli preferiti da Vincenzo Gemito, altro non sono che lo strumento attraverso il quale con il disegno e la scultura ne ha ripreso la quotidianità, specialmente negli anni dei suoi esordi; si confronta in questo con l’amico Antonio Mancini che all’Esposizione Universale di Parigi del 1878 — parteciparono entrambi — portò il modello Luigi Gianchetti, detto Luigiello. Vicoli, urla, giochi, povertà, come non poteva porre attenzione Gemito a una realtà che ben conosceva, lui che, abbandonato dalla madre nella ruota dell’Annunziata a Napoli il 17 luglio 1852, venne adottato da una famiglia povera, lasciato crescere a contatto con gli scugnizzi che raffigurerà, lontano da ogni dettame accademico. Ancora strade, solitudine e disagio sociale saranno al centro delle opere di Paolo La Motta. Per lui il quartiere Sanità, eterogeneo e pulsante nelle sue mille sfaccettature, offrirà modo di lavorare coinvolgendone i ragazzi, fra questi Genny Cesarano che, a soli 17 anni, venne ucciso per errore da coetanei camorristi la notte del 5 settembre 2015.

di Susanna Paparatti