A settant’anni dalla morte di Cesare Pavese

Una vita da vivere, biciclette da inforcare

Vincent van Gogh, «Terrazza del caffè» (1888, Museo Kröller-Müller, Otterlo)
26 agosto 2020

La dimensione letteraria di Cesare Pavese è quella di un classico del Novecento, testimoniata nel tempo, a settant’anni dalla morte, da interpreti di una “lunga fedeltà”, come Gianni Venturi, Anco Marzio Mutterle, Marziano Guglielminetti, Lorenzo Mondo, Mariarosa Masoero, Laura Nay, a cui si sono affiancate nuove generazioni di lettori e studiosi. Un classico per la sua ininterrotta interrogazione sull’intreccio tra il tempo della storia e quello dell’esperienza personale, nel dialogo costante con il linguaggio archetipico del mito che nasconde un’originale ricerca del Dio cristiano, se non altro per un fascino letterario intravisto in squarci luminosi nell’esperienza di uomini, capace, forse, di dare senso ultimo alle sue ricerche sul mito: e «se davvero fosse vero?». Un classico per il ritmo che ne cadenza le pagine, legato non solo allo scorrere delle lancette sul quadrante dell’orologio. «“Essere fuori dal tempo” — scrive Laura Nay — è la scommessa di Pavese, fuori dal tempo “empirico” per consentire […] il “costruirsi” dell’opera grazie a “istantanee illuminazioni”» che siano la creazione di un nuovo ordine temporale, legato, appunto, all’eternità delle storie mitiche.

Un classico per lo stile inconfondibile: all’incipit poetico di Lavorare stanca, con l’innovativo verso lungo alla Whitman, nel pieno della stagione “ermetica”, segue, nella prosa, il testardo inseguimento di un equilibrio tra gli opposti: «Ci vuole la ricchezza d’esperienze del realismo e la profondità di sensi del simbolismo», riflette nel Il mestiere di vivere (14 dicembre del 1939), il diario di impronta esistenziale e, insieme, affascinante laboratorio di scrittore. L’equilibrio viene raggiunto ai vertici di un cammino ventennale, 1930-1950, nei romanzi della piena maturità: La casa in collina, Il diavolo sulle colline, Tra donne sole, La luna e i falò. Un percorso che può leggersi nelle diverse tappe della vita umana: l’infanzia (in particolare la prima parte di Feria d’agosto), l’adolescenza e la giovinezza (la trilogia de La bella estate), la difficile maturità (La casa in collina, La luna e i falò). La prima età, rivisitata avanti negli anni con la gioia struggente di un’iniziazione, è quella della meraviglia, dell’accadere continuo, degli incontri possibili, degli orizzonti aperti, come dall’alto delle colline si può immaginare, più che vedere, il mare.

«Niente accade», al contrario, nell’età adulta, è la formula della rassegnazione di fronte a un tempo che non si recupera, segnato dalle atrocità della storia, dai giorni di solitudine del confino per antifascismo fino alla guerra mondiale e più ancora dalla amara consapevolezza che nemmeno il trionfo mondano e letterario riempie il cuore di quella pienezza gioiosa che era il contenuto della promessa dei giorni dell’infanzia tra le colline.

Nel mezzo, tra la vita come «festa» continua e il muro degli obblighi della società borghese, i giovani della trilogia de La bella estate, in misure diverse, cercano «le cose che accadono» fino allo sfinimento e alla resa, indicata nel contrasto tra i verbi (le azioni) al presente e quelli all’imperfetto o al passato remoto. Lo attestano i lodatissimi incipit. La bella estate: «A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e attraversare la strada per essere come matte e tutto era così bello, specialmente di notte che tornando stanche speravamo ancora che qualcosa succedesse». Il diavolo sulle colline: «Eravamo molto giovani. Credo che in quell’anno non dormissi mai».

Una baldanza castigata, quasi che i giovani, impunemente, avessero voluto sostituirsi a Dio nel vizio e fossero stati ricacciati nel territorio dell’ipocrisia e della legge del compromesso. Una dura sanzione, simile a quella letta nel mito con i Dialoghi con Leucò attraverso la dialettica tra una legge imposta con violenza dagli olimpici e i liberi incontri tra le diverse nature nell’era dei titani. La creazione di uno stile inconfondibile passa anche attraverso l’enorme mole di lavoro editoriale e di traduttore, come recentemente riepilogata nel volume einaudiano di Giancarlo Ferretti, L’editore Cesare Pavese. Una caparbia ricerca «portata avanti sia nei versi che in prosa, senza eccezione per le lettere, un genere solo apparentemente minore ma per lui ugualmente serio e impegnativo», scrive Mariarosa Masoero nel numero monografico di «Studium», 2-2020 dedicato allo scrittore langarolo e che contiene anche il saggio della Nay, commentando un’inedita lettera all’amico e sceneggiatore Tullio Pinelli del 1927, nella quale, a diciannove anni, Pavese si mostra cosciente di questo aspetto caratterizzante che si concretizza nel rappresentare la storia sullo sfondo degli archetipi, mirando a rappresentare nei suoi esiti maturi la «realtà simbolica».

Un lavoro che oggi è facilmente accessibile agli studiosi grazie alla lodevole attività di Masoero, direttrice del Centro Studi Gozzano-Pavese dell’Università di Torino, con la possibilità di consultare i manoscritti on-line iscrivendosi al sito HyperPavese.it. Un periodo cruciale quello del lavoro all’Einaudi, anche nella sede romana, nel pieno della tragedia della guerra civile e poi dell’immediato dopoguerra, in cui si intrecciano, nella riflessione pavesiana, coscienza della natura violenta dell’umanità (siamo nati nella palude Boibeide) e la volontà di ricostruzione, testimoniata nella stesura di articoli memorabili, tra tutti “Ritorno all’uomo”, sulla resilienza che la cultura ha offerto negli anni bui di odio e di atrocità del ventennio fascista e del conflitto mondiale. Parole, oggi, ancora molto attuali, che richiamano al senso di comunità, alla sacralità di ogni singolo individuo: «Questi anni di angoscia e di sangue ci hanno insegnato che l’angoscia e il sangue non sono la fine di tutto. Una cosa si salva sull’orrore, ed è l’apertura dell’uomo verso l’uomo. Di questo siamo ben sicuri perché mai l’uomo è stato meno solo che in questi tempi di solitudine paurosa. Ci furono giorni che bastò lo sguardo, l’ammicco di uno sconosciuto per farci trasalire e trattenerci dal precipizio. Sapevamo e sappiamo che dappertutto, dentro gli occhi più ignari o più torvi, cova una carità, un’innocenza che sta in noi condividere. […] Il nostro compito è difficile ma vivo. È anche il solo che abbia un senso e una speranza. Sono uomini quelli che attendono le nostre parole, poveri uomini come noialtri quando scordiamo che la vita è comunione. Ci ascolteranno con durezza e con fiducia, pronti a incarnare le parole che diremo. Deluderli sarebbe tradirli, sarebbe tradire anche il nostro passato». L’annata 1945 de Il mestiere di vivere termina con questa notazione del 9 dicembre: «Ma tutti i pazzi, i maledetti, i criminosi sono stati bambini, hanno giocato come te, hanno creduto che qualcosa di bello li aspettasse. Quando avevamo tre, sette anni, tutti, quando nulla era avvenuto o dormiva solamente nei nervi e nel cuore».

L’attesa di qualcosa di bello caratterizza alcuni momenti dell’infanzia, a rivederli con gli occhi dell’adulto. Accomuna tutti gli uomini e Pavese sente il bisogno di ribadirlo, in quel clima delicato ed esaltante di «ritorno all’uomo», come poi nel dialogo L’isola, dove Ulisse spiega a Calipso la ragione ultima della sua ricerca, nel riproporsi instancabilmente di alcune domande radicali e religiose sull’esistenza umana, sull’essere mitico ed eterno, sul tempo contingente ed effimero: «quello che cerco l’ho nel cuore come te». E non bisogna dimenticare, come titola la bella monografia di Luisella Mesiano, Il ritratto oscurato di Pavese allegro, l’uomo ironico e autoironico, capace di slanci generosi verso i lavoratori (i contadini e gli operai protagonisti di liriche e racconti, i collaboratori e consulenti editoriali), ricordando, ad esempio, in una lettera del 14 aprile del 1942, al suo direttore, «l’egregio Giulio Einaudi», di non tirare troppo la corda verso i suoi “dipendenti” (un «sistema di sfruttamento integrale») anche perché: «C’è una vita da vivere, ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere. La Natura insomma ci chiama, egregio Editore; e noi seguiamo il suo appello».

di Fabio Pierangeli