La voce di Roberto Di Bella, giudice e presidente del Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria, è pacata e accogliente tanto quanto il suo pensiero è forte, deciso, levigato dal tempo, fortificato dall’esperienza.
È certo, Di Bella, che «la questione minorile è di cruciale importanza» e sa benissimo, per le tante storie incontrate negli anni, che la «’ndrangheta si eredita»: che mantiene «il potere sul territorio attraverso la continuità generazionale: con l’indottrinamento sistematico dei figli minori». A raccogliere queste parole è la regista Sophia Luvarà, calabrese lei stessa, anche se da tempo in giro per il mondo, che poi le inserisce, insieme a molte altre, nel coinvolgente documentario Parola d’onore, presentato al Biografilm Festival del 2020.
Tutte insieme raccontano l’umanità di questo giudice, il suo modo approfondito di osservare, la sua coraggiosa convinzione che tagliare quel rapporto padri/figli inteso come oppressione contro libertà di scelta sia necessario per evitare un «destino altrimenti inevitabile di morte o di incarcerazione». Ecco allora quei «provvedimenti civili — prosegue Di Bella — di decadenza o di limitazione dell’attività genitoriale, con l’obiettivo di aiutare gli sfortunati ragazzi delle ‘ndrine e nel contempo interrompere questa spirale perversa».
La voce del giudice entra, in Parola d’onore, nelle stanze in cui dormono quattro giovani vite alle prese con il percorso rieducativo da lui voluto con tenacia attraverso il progetto «Liberi di scegliere». Accompagna il cammino potenzialmente salvifico di Pierpaolo, Simone, Bader e Reda: tutti della Comunità ministeriale del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, tutte fragilità che stanno scontando la loro pena ma che insieme — forse anche specchiandosi una nell’altra — provano a cavalcare una possibilità sconosciuta, a costruirsi una speranza e a incamminarsi su una strada ai loro occhi invisibile fino a poco tempo prima. Lo fanno calcando insicuri un paesaggio nuovo abitato da altri modi di stare al mondo, persino da Shakespeare e dai suoi Romeo e Giulietta: così distanti eppure così assonanti con le storie dei ragazzi raccontati, perché ci sono in entrambi i casi famiglie portatrici di odio, di ostacoli alla fioritura dell’amore e della libertà, organismi fondamentali ma malati, produttori non di vita ma di morte.
Sul palco si lasciano andare e si irrigidiscono, i ragazzi filmati con discrezione, sensibilità e partecipazione da Sophia Luvarà: sono lì per mollare, hanno risate nervose che impediscono di salpare, ma alla fine vanno in scena, ed è un colpo forse utile a sfibrare quel cordone ombelicale soffocante, accecante, che se non è della famiglia in senso stretto — perché non tutte le storie del documentario vengono da contesti di ‘ndrangheta — è certamente di un ambiente sociale duro, sfavorevole, ribollente di degrado e di illegalità. Sono storie di un prima opprimente, distruttivo, e di un dopo possibile, non scontato, nemmeno facile, la cui esistenza, però, è testimoniata da Alfonso Gallico: la quinta gracilità di Parola d’onore, che ha un cognome pesante ed è cresciuto con un padre latitante.
Di Bella lo condannò per associazione mafiosa, però oggi Alfonso va a trovarlo sorridendo, consapevole dell’aiuto ricevuto, di quella speranza sempre più tangibile, afferrabile, lavorativamente ed esistenzialmente. «Gli ho inflitto delle sofferenze» dice Di Bella, ma «Alfonso è una delle mie soddisfazioni professionali più grandi», perché oggi conosce il valore della letteratura (cita il Balzac di Memorie di Sanson) e lavora su un set cinematografico, dice la didascalia che chiude il film. Perché sa raccontarsi in modo dettagliato, sereno, e sa leggere la complessità della sua storia. Perché sintetizza il punto nodale della questione dialogando con la regista. Si chiede, Alfonso: «Se penso di comportarmi bene secondo quello che mi hanno insegnato i miei genitori e gli altri lo vedono come il male assoluto, io cosa sto facendo? Mi sto comportando bene, oppure sono il male?». Parla dell’immersione nell’acquario fangoso di un’educazione criminale e di una tradizione disfunzionale che rende difficile riconoscere la trappola, la condanna. Ma nella domanda c’è già una parziale, embrionale presa di coscienza: la scoperta, prima dolorosa e poi liberatoria, dell’esistenza di altre vie, di altre parole, di altre emozioni lontane da quel male a cui l’ultima didascalia di Parola d’onore risponde che per tante giovani vite «un’alternativa alla criminalità esiste ed è alla loro portata» attraverso una «Comunità che fornisce ai ragazzi nuovi stimoli e al contempo rifonda il senso stesso della parola “onore”».
di Edoardo Zaccagnini