Quando Bob Dylan andò a trovare il suo mentore in ospedale

Una cantina piena di canzoni

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13 agosto 2020

Woody Guthrie, ovvero «la vera voce dello spirito americano», così lo definisce il suo più famoso “allievo”, Bob Dylan che, come sanno bene i suoi fan, nel 1961, neanche ventenne, andò più volte a trovare Guthrie ricoverato in ospedale nel New Jersey. Ecco come il premio Nobel per la letteratura lo ricorda in una pagina di «Chronicles», la sua autobiografia pubblicata in Italia nel 2005 dall’editore Feltrinelli.

Avevo in programma di andare a trovare Woody Guthrie, ma quando mi svegliai il tempo era troppo brutto. Far visita a Woody regolarmente, come mi ero ripromesso, stava diventando sempre più difficile. Woody era stato confinato al Greystone Hospital di Morristown, nel New Jersey, e io di solito prendevo l’autobus dalla stazione di Port Authority, mi facevo un’ora e mezza di viaggio e poi una camminata di mezzo miglio su per la collina fino all’ospedale, un tetro, minaccioso edificio di granito che pareva una fortezza medievale. Woody mi chiedeva sempre di portargli sigarette. Sigarette Raleigh. Di solito passavo il pomeriggio a suonargli le sue canzoni. Certe volte era lui che mi chiedeva questa o quella, Ranger’s Command, Do Re Mi, Dust Bowl Blues, Pretty Boy Floyd e Ballad of Tom Joad, la canzone che aveva scritto dopo aver visto il film Furore. Quelle canzoni le sapevo tutte, e anche molte altre. Woody non era molto considerato in quel luogo che peraltro era poco indicato per incontrarvi chiunque, meno che mai la “vera voce dello spirito americano”.

In realtà si trattava di una clinica psichiatrica, e non lasciava speranza a chi vi entrava. Si sentivano lamenti nei corridoi, la maggior parte dei pazienti indossava uniformi a strisce della misura sbagliata, e mentre io suonavo le canzoni di Woody file di ricoverati entravano e uscivano senza meta. Uno aveva la testa che glï cadeva continuamente sulle ginocchia, la sollevava e gli ricadeva ancora. Un altro era convinto di essere tormentato dai ragni e ruotava continuamente su se stesso dandosi sberle sulle braccia e sulle gambe. Un altro che era convinto di essere il presidente portava in testa un cappello da Zio Sam.

I pazienti roteavano gli occhi e le lingue e annusavano l’aria. Di uno che si leccava le labbra in continuazione un barelliere in camice bianco mi disse che mangiava comunisti a colazione. Lo spettacolo era poco rassicurante, ma Woody Guthrie non ci badava affatto.

Un infermiere di solito lo portava fuori da me e dopo un po’ che ero lì lo riportava via. Era un’esperienza che faceva passare i grilli per la testa, e psicologicamente ti prosciugava.

Durante una delle mie visite, Woody mi aveva detto che c’erano scatole piene di canzoni e di poesie scritte da lui, che nessuno aveva mai visto e che non erano state messe in musica. Stavano nella cantina di casa sua a Coney Island e se volevo andare a prenderle, lui mi dava il permesso. Se ne volevo qualcuna dovevo andare a trovare Margie, sua moglie, e spiegarle la ragione della mia visita. Me le avrebbe tirate fuori da scatoloni. Mi spiegò come dovevo fare a trovare casa sua.

All’incirca il giorno dopo presi la metropolitana dalla stazione della West 4th Street fino all’ultima fermata di Brooklyn, come lui mi aveva detto. Uscii sulla banchina e andai in cerca della casa. Secondo Woody era facile da trovare. Vidi una fila di casette a schiera dall’altra parte di un prato, proprio come lui me le aveva descritte, e mi incamminai in quella direzione per scoprire subito dopo che stavo muovendo i passi in mezzo a una palude.

Sprofondai nell’acqua fino al ginocchio ma continuai ad andare avanti. Vedevo brillare le luci mentre avanzavo e non c’era altra direzione da prendere. Quando arrivai dall’altra parte avevo i pantaloni inzuppati e gelati dalle ginocchia in giù, e quasi non sentivo più i piedi, ma trovai la casa e bussai alla porta. Una governante aprì uno spiraglio, disse che Margie, la moglie di Woody, non era in casa.

Uno dei figli di Woody, Arlo, che poi sarebbe diventato un cantante professionista e autore di canzoni, disse alla governante di lasciarmi entrare. Arlo allora aveva dieci o dodici anni e non sapeva niente di manoscritti chiusi in cantina. Non volevo essere invadente e la governante mi metteva a disagio. Rimasi giusto il tempo sufficiente per scaldarmi un po’, salutai rapidamente e me ne andai con gli stivali ancora pieni d’acqua, riattraversai la palude a passi lenti e ritornai sulla banchina della metropolitana.

Quarant’anni dopo quei testi sarebbero finiti nelle mani di Billy Bragg e dei Wilco. Sarebbero stati loro a metterli in musica, a riportarli in vita e a registrarli, il tutto sotto la direzione della figlia di Woody, Nora. Forse quegli artisti non erano nemmeno nati quando io feci quell’escursione a Brooklyn.