Nel primo anniversario della morte di Lapo Mazzei

Un Eden chiamato Fonterutoli

Lapo Mazzei con i figli Filippo e Francesco
19 agosto 2020

«Fonterutoli non la dimenticherò mai — scriveva Giorgio La Pira nel 1953 dal suo convento di San Marco —. Nel 1943, in casa Mazzei, per tre mesi vi trascorsi un periodo di vita ricco di preghiera e fecondo di attesa. Sono grato al Signore per avermi fatto conoscere questa piccola città». Una comunità coesa come un organismo vivente, una “città”, continua La Pira «tutta ordinata intorno alla sua chiesa. Un angolo particolare di pace di solitudine, di speranza. E i suoi abitanti portano nel volto e nel comportamento i segni vivi della fede cristiana, della carità cristiana, della speranza cristiana». Parole che descrivono bene anche l’identikit dei padroni di casa, Fioretta Mazzei, che poi sarebbe diventata la sua più stretta collaboratrice, e suo fratello Lapo, morto un anno fa, il 20 agosto 2019. «Un protagonista della vita sociale fiorentina nella seconda metà del Novecento» come l’ha definito la stampa nei tanti obituaries usciti in occasione delle sue esequie, celebrate il 22 agosto nella basilica di Santo Spirito a Firenze. Presidente del Consorzio del Chianti Classico e della Cassa di Risparmio di Firenze, ma soprattutto mecenate vecchio stile, con elegante understatement, umiltà autentica e fattiva, concreta attenzione al bene comune. «Era la tarda primavera del 2000 quando, per il tramite di un comune amico fiorentino, incontrai Lapo Mazzei — scrive il poeta e saggista Piero Buscioni — Dopo quella prima volta, innumerevoli altre ne seguirono, altri amici si aggiunsero. Nacque una sorta di sodalizio, umano, intellettuale e spirituale. Ci animava, nelle pur ineludibili e sempre sacrosante differenze, una tensione verso l’ideale, un sentimento religioso della vita, una nostalgia per l’altrove, un amore per la bellezza platonicamente intesa come splendore del vero. Ne scaturì una rivista, di cui Lapo Mazzei fu appunto l’illuminato mecenate, che io pensai di chiamare “il Fuoco”, edita da Polistampa. Rivista che di un fuoco, non infernale ma purgatoriale, ha bruciato a lungo. “Poi s’ascose nel foco che li affina” è stato l’esergo dantesco che assolutamente volli per ogni numero; ma rammemoro che Mazzei, in relazione al fuoco, aveva pensato al motto latino Numquam Deorsum: mai in basso. Ecco, questo per me Lapo Mazzei è stato: un uomo mai in basso — conclude Buscioni — Tanti sono i momenti, tante le parole che vorrei, che potrei ricordare; ma dirò solo che in lui ho visto incarnata la parola nobiltà. Nei ricordi, ma anche oltre; nell’oltre. Perché, come Lapo Mazzei sapeva bene, tutto finisce eppur tutto non finisce in questo mondo».  Pubblichiamo in questa pagina anche le testimonianze degli altri due fondatori della rivista «Il Fuoco», Massimo Rapi e Lorenzo Nannelli.

di Silvia Guidi

 

La risposta del ciambellano degli Asburgo


Vienna, 22 agosto 2019.

Ho saputo di Lapo ieri pomeriggio mentre ero nel centro di Vienna, dove sono in viaggio con la mia famiglia. Trovandomi qui, ho sentito naturale affidarne subito il ricordo alla chiesa dei Cappuccini, dove esiste una Cappella Toscana nella quale riposa un cospicuo gruppo di innamorati della nostra città e regione, a partire dal granduca Pietro Leopoldo. E Lapo della nostra terra si è nutrito con passione instancabile, diventandone un figlio operoso, provvido, innovatore.

L’avevo salutato con sua moglie Carla ai primi di maggio a Fonterutoli, in una delle ormai rare occasioni in cui passo da Firenze. Se pur con minori energie, si mostrava sempre lucido e vivace, attento osservatore di quel che accadeva in Italia e nel mondo, curioso e sorridente. Conversammo come era costume di molte cose, con piacere, poiché era un uomo che non aveva mai scordato l’entusiasmo. Mi rattrista enormemente la notizia, ed esprimo le mie condoglianze innanzitutto alla sua amata e numerosa famiglia che era il suo orgoglio più grande. Nel ricordarlo insieme ai comuni amici, non mi sento però di tacere come, pensando a Lapo, io viva questa mestizia insieme a una luce di speranza, alimentata e rischiarata dal luogo dove il caso ha voluto che fossi.

La chiesa dei Cappuccini di Vienna è il luogo dove per secoli hanno trovato posto imperatori, imperatrici, duchi e principesse della famiglia Asburgo. Insomma gente che aveva una qualche importanza, che aveva avuto degli impegni pubblici, e che godeva di una certa fama, era famosa, era ben conosciuta da molti. Oggi, che viviamo in tempi diversi, l'essere rinomati accade più spesso a chi ha avuto responsabilità di imprese, di banche, di consorzi, associazioni e di accademie, come Lapo Mazzei.

Al momento delle esequie di un Asburgo, è tradizione che un ciambellano, guidando il corteo funebre, bussi alla porta chiusa della chiesa dei Cappuccini di Vienna. Alla domanda del frate guardiano su chi sia a bussare, il ciambellano prontamente risponde dichiarando nome e incarichi in vita (imperatore, regina, duchessa, arciduca...) di colui o colei i cui resti sono avviati verso le cappelle di famiglia.

Ma per quanto il ciambellano, bussando più volte, ribadisca il nome della Maestà di turno, ricordandone con crescente dovizia i titoli, gli incarichi, le responsabilità che sono sia chiaro ben note, degne, e stimate da tutti, il frate cappuccino che ascolta dall’altro lato della porta risponderà ostinatamente di non conoscere la persona che si vorrebbe far giacere oltre la soglia. E pertanto insisterà nel non voler aprire la porta della chiesa. Il ciambellano infine, esaurita ogni descrizione del curriculum del defunto, busserà un’ultima volta.

Il frate reagirà all’ennesimo tentativo con identica domanda, semplice e imperturbabile: «Chi è?». E la risposta del ciambellano sarà ancora un nome e un cognome, ma stavolta accompagnato soltanto da un unico titolo, quello di essere umano, mortale e peccatore. A questa presentazione il frate guardiano, come se la foschia delle apparenze si fosse improvvisamente diradata, finalmente affermerà di riconoscere chi attende di essere accolto, e gli aprirà con solerzia la porta della chiesa dei Cappuccini. Il cavalier Lapo Mazzei, stimato presidente e direttore et coetera, l’ho conosciuto come imprenditore e manager brillante e anticipatore, dal parlar diretto e limpido, uomo leale e coerente a volte al limite dell’ingenuità (poiché ognun l’altrui cuor col suo misura), non sempre ripagato con la stessa moneta. Ho visto con quale diligenza e schiettezza dettava i suoi interventi in consiglio d’amministrazione o la corrispondenza (il computer non apparteneva alla sua epoca), e come d’ogni attività volesse sempre immaginarne lo sviluppo, il futuro, la fioritura, concependo il potere del ruolo non come un fine ma come un mezzo, di cui rendere conto. Egli non era però solo questo.

Lapo, già molto anziano e malato, partiva il pomeriggio con la sua Fiat Panda carica di bottiglie del suo vino per portarle a una congregazione che nella periferia fiorentina è dedita all’assistenza ai più deboli, e un altro giorno si perdeva nel dedalo di appartamenti frammisti di fabbriche che si trova negli informi sobborghi ad ovest di Prato, per consegnare un plico di contanti a una famiglia in necessità, e un altro giorno si metteva con naturalezza in coda alla sede centrale della banca di cui era stato presidente, sostando in piedi per una mezz'ora, per versare una somma raccolta in beneficenza. E quando un funzionario se ne è accorto, pregandolo di saltare la fila, è rimasto dov’era. Lapo, con tutto il vissuto che spesso rende cinici uomini con la sua stessa esperienza, si commuoveva ancora per le ingiustizie piccole e grandi, a lui vicine o lontane, era capace di rammaricarsi ed angustiarsi per anni quando non riusciva a raddrizzare un torto cui sperava o credeva di poter rimediare, e non ha mai rinunciato, finché le forze glielo hanno consentito, a mettersi in gioco personalmente con iniziative culturali, di studio e di ricerca, per poter dare un contributo al mondo e alla città dove viveva.

Non ha mai fatto politica in senso stretto, ma ha sempre sentito e vissuto l’impegno per il bene comune. Non ha mai dimenticato che quando aveva diciannove anni, pur avendo ottenuto la dispensa dal servizio militare per motivi di salute, decise di lasciare le sue vigne mature e si arruolò volontario al fronte nell’esercito dell’Italia che aveva appena rifiutato la dittatura, e si accingeva a liberarla dall’occupazione nazista. Affrontava con serietà i suoi compiti, ma non si prendeva mai troppo sul serio. Di fronte alla chiesa dei Cappuccini di Vienna, del cui cerimoniale così speciale parlammo anni fa insieme, Lapo Mazzei non avrebbe atteso molto, perché sapeva bene cosa rispondere, sapeva per cosa sarebbe stato riconosciuto, e ne era profondamente convinto.

Chiunque abbia provato affetto per Lapo Mazzei, ha la speranza che quando egli busserà alle porte del cielo, verrà riconosciuto. È per questo che la tristezza di oggi non può non essere illuminata dal suo sorriso sereno, pieno di fiducia, con cui sicuramente continuerà ad abbracciare i suoi cari. (Massimo Rapi)


Ospiti di sei secoli di storia


Pareva che per Lapo ogni cosa fosse possibile da affrontare. Apparteneva certamente ad una generazione che aveva visto il Paese rinascere, grazie a tutte le energie spese nel rendere concrete le proprie idee. Quando fondammo la rivista «Il Fuoco», io, Piero Buscioni e Massimo Rapi, lo facemmo grazie all’entusiasmo di Lapo Mazzei; grazie al suo desiderio di aiutare le nuove generazioni ad esprimersi, a muovere le acque stagnanti di un Paese tristemente confuso. A ogni incontro dimostrava la sua incapacità di accettare l’ingiustizia e la volgarità dei tempi.

A noi che eravamo tanto più giovani ha sempre trasmesso un’energia che ogni volta sorprendeva. A noi che nonostante la giovane età eravamo smarriti e come oppressi da una grigia cappa di impotenza, ha sempre donato la voglia di credere, di guardare al futuro come qualcosa di realizzabile, come una continua opportunità. Sapeva ascoltare, aveva dei valori forti ed era capace di indignarsi per difenderli. Il ricordo più bello e intenso che ho è legato a una giornata trascorsa nella sua casa di Fonterutoli.

Parlammo a lungo. Portò me, Massimo e Piero a visitare la nuova cantina in costruzione. Tornando a piedi verso casa, incontrammo due giovani turisti francesi che erano lì per conoscere l’azienda vinicola e assaggiarne i vini. Questi ci chiesero informazioni, ignorando di avere davanti a loro il proprietario del luogo. Lapo, in perfetto francese, rispose loro spiegando che a quell’ora l’azienda era chiusa, ma che potevano seguirci.

Fu così che per i due fortunati esterrefatti furono aggiunti due piatti a tavola nella sala da pranzo di Fonterutoli e, sotto l’albero genealogico dei Mazzei, si trovarono a parlare di vino, di politica francese e d’Italia. Per tutti noi fu la grande lezione d’ospitalità di un gentiluomo d’altri tempi. (Lorenzo Nannelli)