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Un’arma segreta chiamata empatia

Un testimonial di EmpatHero
10 agosto 2020

A colloquio con Samuele De Grandis, cofondatore dell’app EmpatHero


Esiste un pregiudizio per cui la sempre maggiore personalizzazione dei social network è ricondotta, nell’immaginario collettivo, al presunto bisogno degli utenti più giovani di godere di un’esperienza online che sia il più possibile totalizzante, digitale e alienante. Questa retorica, tuttavia, dipende da una falsa opposizione binaria: la dimensione digitale è posta come mutualmente esclusiva della dimensione reale e umana, in quanto alla prima sono associate emozioni e aspirazioni che non possono essere né umane né reali. Questo nonostante i più giovani, per motivi anagrafici e di capacità economica, spesso fuggano alle aspirazioni commerciali ed elettorali di chi vorrebbe fare dei loro dettagliati profili online un cliente. I nativi digitali sono raffigurati come esseri umani incapaci delle emozioni più analogiche, come l’empatia.

Eppure, «sempre più studi a livello internazionale rilevano che i Gen Z (la generazione compresa fra gli ultimi anni Novanta e i primi anni 2010) usano sempre meno i social media e che questi ultimi hanno un’importanza sempre minore nella loro visione complessiva di sé stessi, della loro immagine e del mondo», ci dice Samuele De Grandis, cofondatore e ceo dell’app EmpatHero. Nata da poco più di un anno, la start-up che sfida la presunta disumanità del digitale ha vinto il programma di accelerazione dell’università di Roma Tor Vergata, VGen, e dal prossimo autunno darà il via a un progetto di collaborazione con diverse scuole elementari della capitale. «Ma la soddisfazione maggiore — ci dice l’amministratore delegato del gruppo under-30 — è data dalla gentilezza trasversale che le persone di ogni tipo dimostrano nell’uso della nostra piattaforma».

Un’app che verte sul principio dell’empatia: come lo avete reso possibile?

Durante gli anni universitari ho avuto la fortuna di viaggiare molto. Così è nata l’idea di EmpatHero: la gentilezza caratterizza tutte le persone universalmente. Nell’ultimo decennio, tuttavia, l’emergenza dei più importanti social network è stata accompagnata da una forte campagna di marketing. I social media ci sono stati venduti come uno strumento per connettere il mondo, quando invece vendono pubblicità distruggendo i costi dei media tradizionali. L’enfasi, quindi, è sul presunto egoismo umano al centro del nostro intero sistema economico, mentre la scienza dimostra che gli esseri umani sono programmati per essere empatici. Il modello di EmpatHero è semplice: ogni utente ha accesso alle storie pubblicate in forma anonima dagli altri partecipanti, e può decidere di reagire alla sua storia preferita con un “atto di gentilezza”. Una playlist contenuta in una pennetta usb, una lettera, un libro: sono solo alcuni esempi degli atti di gentilezza. Un like tangibile, si potrebbe dire.

Come affrontate la competizione con altri social media che si basano sulla particolarizzazione o profilazione (profiling) dell’esperienza dell’utente?

L’estrazione di dati al centro del modello di business dei maggiori social media verte su due principi. Primo, la possibilità di creare un servizio “su misura” per il consumatore e secondo, la generazione di profitti data dalla vendita di questi dati a parti terze. Su EmpatHero, ogni utente può attivare dei filtri per selezionare, ad esempio, storie più felici o più tristi, secondo il suo umore. Secondo noi, la personalizzazione non è negativa in sé. Spesso, tuttavia, i filtri e le categorie attraverso cui i maggiori social media personalizzano e canalizzano la nostra empatia fanno riferimento all’apparenza fisica, alle mode o al consumo. In questo senso, non ci vediamo come un social, perché, nell’iscriversi, tutti i partecipanti fanno una scelta di tipo etico nel mantenere l’anonimato e, di conseguenza, non permettere l’estrazione di data. La connessione fra gli utenti è più fortunata perché liberata dalle categorie dei social. E i risultati lo confermano: a oggi abbiamo pubblicato un centinaio di storie e contiamo più di 550 atti di gentilezza.

L’empatia, dunque, non è un principio incompatibile con la dimensione digitale?

L’empatia è comune a tutti gli esseri umani in tutti i luoghi, sia fisici sia virtuali. Non sono del tutto convinto, però, che questa esposizione digitale, con questa frequenza, sia benefica per gli esseri umani. Le ultime generazioni stanno manifestando la necessità di ampliare le loro esperienze di vita offline e forse, pian piano, anche i colossi del web si dovranno evolvere dopo questa sbronza virtuale. Noi di EmpatHero abbiamo scelto le librerie come i drop point dove vengono raccolti gli “atti di gentilezza” per riportare un’esperienza virtuale nel reale e per riavvicinare le persone al mondo della cultura, delle piccole realtà locali e ai negozi fisici.

L’emergenza legata al coronavirus ha sollecitato la riapertura di un dibattito secolare riguardo gli obiettivi della scuola dell’obbligo. In particolare, la didattica a distanza ha riaperto la frattura binaria fra analogico e digitale. Le nuove generazioni rischiano di crescere in un mondo eccessivamente digitale, abbandonando gradualmente alcune priorità come l’empatia o la fratellanza?

È importante che la scuola riapra in sicurezza come un luogo di cultura, e non solo in quanto sede di apprendimento verticale o mnemonico. Le esperienze di incontro e dialogo caratterizzano la scuola pubblica italiana e attraversano le barriere d’età, di classe e di etnia. L’educazione socio-emotiva o del pensiero empatico è imprescindibile sia come valore sia come soft skill per il successo personale e professionale. In Danimarca, uno dei Paesi con i più alti indici di felicità al mondo, un’ora scolastica a settimana è dedicata all’insegnamento dell’empatia. Al momento, i nostri sforzi sono diretti al lancio di EmpatHero Kids, un progetto di collaborazione con le scuole elementari che avrà inizio nell’autunno. Lo sviluppo di un sentimento così astratto può voler dire lavorare contro il bullismo o anche semplicemente realizzare un disegno. L’importante è accompagnare i più giovani non solo nella formazione dell’empatia cognitiva e affettiva, ma anche nello sviluppare l’empatia attuativa, ovvero dare gli strumenti per canalizzare questi sentimenti e concretizzarli affinché i bambini possano vedere che il mondo può veramente essere cambiato con la gentilezza.

Stiamo ripartendo dopo un lungo periodo di riflessione. Il lockdown ci ha ricordato l’importanza dell’empatia e delle relazioni interpersonali?

Sono restio alla polarizzazione dei dibattiti e non credo che l’empatia sia una panacea attraverso cui tutti i problemi, come il razzismo strutturale o la fame nel mondo, possano essere risolti. La condizione umana è fragile, ma le piccole cose, come lo stare in famiglia o mostrare gentilezza a chi non si conosce, sono i valori importanti risvegliati da questo nostro confronto così improvviso con la morte. Siamo più ben disposti a mostrare gentilezza perché ci è stato ricordato quanto la vita sia preziosa.

di Rachel Joanna Cetera