Un nuovo ritratto di Teresa Benedetta della Croce firmato dal regista statunitense Joshua Sinclair

Sulle orme di Edith Stein

Una scena dal film di Joshua Sinclair
08 agosto 2020

La sua vita è stata spezzata ad Auschwitz-Birkenau, il 9 agosto del 1942, ma non viene meno la forza e la luce della sua testimonianza e della sua fede. Parliamo di Edith Stein, filosofa ebrea convertitasi al cattolicesimo ed entrata nell’ordine delle Carmelitane scalze con il nome di Teresa Benedetta della Croce, proclamata santa da Giovanni Paolo II sulla soglia del nuovo Millennio. Ad oggi il film più conosciuto sulla vita e sul pensiero di Edith Stein è senza dubbio La settima stanza (Siódmy pokój) di Márta Mészáros, presentato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica della Biennale di Venezia nel 1995 e vincitore del premio cattolico internazionale Ocic (oggi Signis). Nell’opera della regista ungherese, film dall’impianto visivo debitore della messa in scena teatrale e dalla forte caratterizzazione simbolica, a interpretare Edith Stein è una straordinaria e intensa Maia Morgenstern, attrice rumena che attraverso la cartografia del proprio volto mette in campo tutte le sfumature interiori del personaggio, della filosofa santa.

Quello della Mészáros non è semplicemente il racconto di una vita attraversata dalla sofferenza e insieme straordinaria e luminosa, quanto piuttosto la narrazione dei contrasti interiori della donna: il confronto serrato con le proprie origini, il conflitto con il nazismo e infine lo sguardo contrapposto tra il dentro e il fuori del convento. Un’opera, La settima stanza, che incede a episodi, come una successione di soglie esistenziali che richiamano il percorso interiore compiuto da santa Teresa d’Ávila, culminato con l’incontro con il Signore nella settima dimora. Per Edith la settima stanza, l’ultima, è brutale, sorda, ossia la camera gas, uno spazio fosco e disumano dove però la regista Mészáros visualizza anche l’immagine della salvezza, la fine del tormento e lo squadernarsi dell’amore del Padre attraverso il simbolico abbraccio materno, della madre Auguste, il ritorno al ventre generatore.

Ora, a distanza di più di due decenni, c’è una nuova proposta cinematografica che allarga il campo della riflessione su Edith Stein, offrendone una lettura più marcatamente esistenziale, una “radicale riflessione” su una delle figuri femminili che hanno maggiormente segnato il panorama culturale del Novecento. Parliamo di A Rose in Winter, opera firmata dal regista, sceneggiatore e attore statunitense Joshua Sinclair, che accanto alla vita artistica coniuga un forte impegno umanitario al seguito dell’Organizzazione internazionale Medici senza frontiere, soprattutto nei territori dell’India e del continente africano. A Rose in Winter, che vanta la collaborazione con il direttore della fotografia Vittorio Storaro — tre volte premio Oscar negli anni Ottanta con Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, Reds di Warren Beatty e L’ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci — è stato realizzato nel 2018 e presentato al palazzo delle Nazioni Unite a Ginevra, come pure nella sede Parlamento europeo e al Congresso degli Stati Uniti a Washington. Grazie all’impegno della Rai, del servizio pubblico radiotelevisivo italiano, a breve il film sarà disponibile anche in Italia.

Qual è la particolarità di A Rose in Winter? Il regista Joshua Sinclair, partendo dal guadagno di Márta Mészáros e del suo film La settima stanza, ha voluto dare maggiore attenzione e approfondimento all’umanità, e al dramma, della Stein, ripercorrendo le sue origini ebraiche e l’incontro con il cattolicesimo. Uno studio attento agli scritti della filosofa giocato in parallelo con le testimonianze di chi l’ha conosciuta: sono questi gli elementi di partenza della sceneggiatura firmata dallo stesso Sinclair. L’autore ha messo a tema il percorso speculativo ed esistenziale della filosofa-religiosa tedesca, che poco alla volta hanno fatto di lei una grande donna che ha saputo dare testimonianza di come il cammino di santità passi solo dalla capacità di “attraversare” il mondo mettendo in pratica la parola evangelica, seguendo il tracciato di Cristo, vivendo il mondo “al modo” di Dio.

Momento chiave nel processo creativo di A Rose in Winter è stato il convegno internazionale «Note a margine della pubblicazione “Die Rezeption Edith Steins” (1942-2012)» presso l’università degli Studi di Bari nel marzo del 2013. Fu proprio in quell’occasione che il regista statunitense ha delineato il progetto del film, precisando che il suo obiettivo era quello di tratteggiare l’umanità di questa grande donna, divenuta modello cristiano di adesione alla fede e alla croce, testimone di un “cammino” umano-intellettuale teso all’incontro con il Mistero.

Sinclair è scrupoloso e attento nel tracciare le origini ebraiche della Stein, la quale era pienamente consapevole che la sua appartenenza al popolo ebraico sarebbe rimasta una costante nella propria vita anche dopo il suo passaggio al cristianesimo nel 1921. A ben vedere un aspetto colto bene anche dal film La settima stanza, nel dialogo tra Edith e la madre Auguste, interpretata da Adriana Asti:

Auguste: Sei ancora giovane. Hai il mondo davanti a te.

Edith: Sei tu che mi hai insegnato a essere buona e giusta. Come cristiana la mia anima appartiene a Dio, a Gesù. Ma come ebrea il mio sangue appartiene al mio popolo.

Ed è proprio questa appartenenza, questa doppia identità nell’animo risolto e luminoso della Stein che l’hanno spinta a scrivere una lettera a Papa Pio XI per chiedere alla Chiesa cattolica di prendere una ferma posizione contro la politica antisemita di Hitler. La Stein vedeva il mondo accanto a sé mutare pericolosamente e leggeva i primi inquietanti segnali contro il popolo ebraico. Uno sguardo chiaro, tragicamente anticipatore, dell’avanzata del Male nel cuore dell’Europa: Edith Stein aveva intuito anzitempo come l’ascesa di Hitler avrebbe condotto la Germania al collasso e con essa non solo il popolo ebraico, bensì tutto il popolo tedesco.

Sempre nel racconto di Joshua Sinclair viene menzionato l’impegno di Edith nella Grande guerra, quando nel 1915 interrompe gli studi per lavorare in un ospedale da campo: in prima linea come volontaria Edith dà prova del suo debito di lealtà e amor patrio verso la Germania. In questo impegno Sinclair mostra la delicatezza della nascita di un legame tra la Stein e Hans Lipps, che non riuscirà però a penetrare in fondo al cuore della donna già abitato dall’amore per Dio e dalla scelta della vita religiosa nel Carmelo.

Il regista mette dunque in evidenza come i tormenti esistenziali della Stein abbiano di fatto rafforzato la ricerca della grazia, l’incontro con Gesù. Gli anni di studio poi a Breslavia, il lavoro come assistente del filosofo Edmund Husserl presso l’università di Friburgo, periodo cui segue l’adesione al cattolicesimo e l’incontro con il Carmelo a Colonia, rappresentano i tratti distintivi di una donna che ha saputo inserirsi nel mondo facendo leva sulla sua umanità. Ancora, la Stein era sì di religione ebraica, radici identitarie che ha sempre difeso, come pure l’appartenenza al popolo tedesco: Edith si dimostra riconoscente verso la Germania, Paese che le ha concesso la possibilità di frequentare un contesto universitario d’eccellenza, di accedere a un solido patrimonio culturale.

Con il suo film A Rose in Winter, pertanto, Sinclair getta una nuova luce sugli scritti della Stein, squarciando un orizzonte di senso legato alla dimensione dell’esistenza della donna e alle scelte da lei compiute: una vita vissuta in piena coscienza, da cui costruire un percorso teoretico capace di schiudere nuove piste di pensiero. In linea con la diffusione del film, l’accurato lavoro di documentazione di Sinclair per la stesura della sceneggiatura trova ora anche un’ulteriore forma di divulgazione grazie al volume Edith Stein. Una rosa d’inverno, edito da Morcelliana e curato dal filosofo Francesco Alfieri, testo che contiene appunto il copione del film (Brescia, 2019 pagine 272, euro 18).

Francesco Alfieri, nell’introduzione del testo, rimarca come Sinclair sia «un regista colto che dimostra non solo di conoscere a fondo gli scritti della Stein, ma anche di aver allargato le sue letture alle opere di Hedwig Conrad-Martius e di altri esponenti del Circolo fenomenologico di Gottinga e Friburgo. L’umanità della Stein e i suoi dissidi interiori sono indispensabili per comprendere le scelte che ella deve poter compiere. Il tutto si snoda nella sua incessante ricerca della Verità, mentre le relazioni interpersonali contribuiscono ad aiutarla a compiere scelte sempre più consapevoli» (pagine 10-11). In un passaggio del film (riportato nel testo a pagina 174), Edith condivide questa riflessione con i suoi studenti, poco prima di essere estromessa dalla sua cattedra:

Edith: Credo che ognuno di noi ha le risorse morali per partecipare alla sofferenza di un altro. Ogni persona deve decidere se camminerà nella luce dell’altruismo creativo o nel buio dell’egoismo distruttivo.

E sempre nel volume Edith Stein. Una rosa d’inverno il filosofo Friedrich-Wilhelm von Herrmann nella prefazione sottolinea: «A mio avviso, Edith Stein va annoverata tra i più grandi fenomenologi di Friburgo. Il fatto che avesse accettato il suo terribile destino e l’avesse affrontato assieme a sua sorella, la rende un esempio straordinario. Ella non dimenticò mai il popolo ebraico da cui traeva le proprie origini, ma è da cristiana che andò incontro alla morte. Quali opere avrebbe ancora potuto scrivere Edith Stein, innovando certo la fenomenologia e la filosofia della religione, se fosse stata salvata in tempo?».

di Dario Edoardo Viganò