
Crisi economica, mancanza di lavoro, ferite sociali non ancora guarite, pericolose polarizzazioni, davanti alle quali è doveroso agire per guardare al futuro con speranza: questi i temi che emergono nel messaggio pubblicato dai presuli boliviani al termine della loro assemblea straordinaria. Con il presidente della Conferenza episcopale, Ricardo Ernesto Centellas Guzmán, arcivescovo metropolita di Sucre, abbiamo parlato della difficile situazione politica ed economica del paese aggravata dall’emergenza sanitaria. «Si va avanti con molta sofferenza, con tante ferite, ma si va avanti», racconta a «L’Osservatore Romano». Per questo nei giorni scorsi i vescovi hanno diffuso un documento congiunto con le Nazioni Unite e con l’Unione europea per promuovere un dialogo costruttivo. «Abbiamo mostrato la nostra profonda preoccupazione — spiega — per l’intensificarsi dei conflitti sociali. Il popolo sta già soffrendo per i blocchi stradali, per gli scontri e per le violenze che non aiutano ad affrontare la pandemia».
Il documento ha elogiato l’approvazione, avvenuta a metà agosto, della legge che fissa entro il 18 ottobre la celebrazione delle elezioni. «Una luce di speranza che si accende nella notte», la definisce monsignor Centellas Guzmán. Ciò ha spinto i manifestanti a interrompere l’occupazione delle strade che hanno bloccato la nazione per dodici giorni. Nonostante questo la situazione attuale resta molto delicata, osserva il presule: «Dal novembre 2019 è presente un governo di transizione che molte cose non può deciderle, quindi permane una condizione di instabilità a tutti i livelli».
Tutto ha avuto inizio con l’annullamento delle elezioni per brogli e con l’esilio in Argentina dell’ex presidente della Repubblica Evo Morales. Da allora la nazione è in mano a un presidente ad interim, Jeanine Áñez. A maggio i boliviani sarebbero dovuti tornare alle urne, ma il voto è stato rimandato a causa della pandemia. Ciò ha alimentato i timori e la protesta di chi chiedeva una data certa per la nuova consultazione elettorale. In tale contesto i vescovi stanno mediando tra le diverse istanze e chiedono elezioni libere e trasparenti. La riapertura dei 140 blocchi stradali è un passo in avanti importante che pone fine alla paralisi dei trasporti che interessava tutta la Bolivia. I contestatori non occupano più le vie di comunicazione con auto o pesanti pietre, ma la protesta è solo sospesa. «La questione politica proseguirà, non finirà quando si terranno le elezioni», sostiene il presidente dell’episcopato. La pacificazione dei conflitti «arriverà attraverso l’incontro e il dialogo» e «questo non si manifesta perché ci sono molti pregiudizi. Come a dire: si discute solo a certe condizioni, se si accetta questo o quello. Io credo che tali atteggiamenti non favoriscono il dialogo».
Oggi in Bolivia l’economia è paralizzata, manca il lavoro e questo alimenta i problemi sociali. La situazione è aggravata dalla pandemia che ha colpito una ventina tra ministri, viceministri e la stessa Áñez. Attualmente si contano 111.000 contagiati, 4664 morti, ma anche 48.875 guariti. Un problema grave riguarda la salute pubblica che versa in una situazione definita “deplorevole”. «L’intero sistema sanitario, già precario, è crollato», spiega l’arcivescovo di Sucre: «Le persone contagiate o gravemente ammalate non possono essere curate negli ospedali, devono restare nelle loro case, ma in molte occasioni escono per strada». Questo accade anzitutto perché le strutture pubbliche garantiscono la gratuità solo per le cure strettamente necessarie. Ora a causa del covid-19 scarseggiano i posti in terapia intensiva e le bombole di ossigeno. Molti, poi, temono di contagiarsi nei nosocomi e preferiscono affidarsi a guaritori. Inoltre, per i boliviani la principale fonte di lavoro è il commercio informale che avviene per strada. Perciò molte persone, frequentando mercati e piccoli negozi, diventano veicoli del virus.
«Ciò è inevitabile», commenta il presule, «la fame è molto più forte di qualsiasi misura preventiva». Infatti, dopo i primi casi di contagio registrati a marzo, il governo ha disposto confinamenti e chiusure, spesso disattesi. Per esempio, il lockdown imposto dallo Stato e introdotto all’inizio è stato sostituito da una quarantena comunale che può durare da pochi giorni a due settimane. Per quanto riguarda le scuole, già chiuse da mesi, ai dirigenti scolastici era stata data piena libertà di riaprire o fare lezioni a distanza. «La ragione fondamentale è di tipo economico — sottolinea — ma l’educazione virtuale ha un costo che la maggior parte delle famiglie che vive nelle aree rurali non può sostenere». Così, alla fine, il governo ha dichiarato chiuso l’anno scolastico, anche se la decisione è stata impugnata dal tribunale di giustizia. Inoltre, sebbene siano stati chiusi i grandi mercati urbani, «le persone continuano a muoversi da una parte all’altra», racconta Centellas Guzmán. «Gli assembramenti sono proibiti ma sono fuori controllo. Questo ha fatto si che il virus si diffondesse da una parte all’altra del paese»: prima l’area più colpita dal covid-19 era quella orientale (Santa Cruz, Beni e Pando), ora i focolai si sono spostati nell’altipiano (La Paz, Oruro e le valli di Tarija e Sucre). «Ciò è successo perché il lavoro di prevenzione non ha funzionato», ma anche perché «non si può fermare la pandemia se non si affronta la fame». Per risolvere tale questione il governo ha introdotto dei bonus economici. Tuttavia, secondo l’arcivescovo, «le famiglie che ne hanno bisogno sono troppo numerose». È per questo motivo che nelle ultime settimane le grandi città si sono svuotate: molti sono scappati dal virus e dalla mancanza di lavoro, sono tornati nelle zone rurali da cui provenivano e lì, oggi, hanno ritrovato la propria famiglia e un lavoro, pur duro, nei campi agricoli.
In tale periodo di crisi pandemica, economica e politica la Chiesa boliviana sta lavorando con le parrocchie e con le altre organizzazioni cattoliche per creare solidarietà. «Credo che a livello statale non si riesca a fare tutto ciò che occorre», osserva Centellas Guzmán, «perciò partendo dalle piccole comunità ci muoviamo per fornire medicinali, curare i malati e portare alimenti alle famiglie». Tutte iniziative rese possibili dalla partecipazione e dalla generosità del popolo boliviano — oltre che dal sostegno delle organizzazioni internazionali — che la Chiesa canalizza verso i più poveri e i più sofferenti. La pandemia ha dato il via anche a un percorso diverso nella relazione con Dio: «La preghiera è più personale, la riflessione è individuale, il contatto più familiare», aggiunge il presule. Oggi in Bolivia non si celebra l’eucaristia pubblica, ma solo privata, con i guanti e in forma virtuale. Così le famiglie possono riunirsi e seguire le celebrazioni in tv e sui social network: «Sono le chiese domestiche quelle che ora stanno funzionando e che acquisiscono vitalità». Anche la festa dell’indipendenza del 6 agosto è stata diversa dal solito: nessuna esposizione, mostra o parata. «I festeggiamenti — conclude l’arcivescovo — hanno assunto un senso più riflessivo, autocritico. Ci si è chiesti: cosa possiamo fare in Bolivia per andare avanti, per sopravvivere anche se non abbiamo niente?». Una domanda che oggi racchiude le molteplici speranze del popolo andino.
di Giordano Contu