#CantiereGiovani - Per costruire e alimentare un'allenza tra le generazioni

Quello sguardo alle stelle

analogue-1701651_1280.jpg
17 agosto 2020

L’assistenza di un ragazzo a un anziano solo


Al termine dell’esame di antropologia filosofica, fatto in un caldo pomeriggio di qualche settimana fa, vedo Andrea, il mio giovane studente del Campus Biomedico tentennare nel chiudere il collegamento: «Prof. con lei posso parlare. Sa cosa mi porto dentro il cuore di questo periodo di lockdown?». Aveva fatto già numerosi soccorsi e sapeva cosa attendersi una volta entrato nella casa del paziente che aspettava l’intervento del 118. Eppure quella sera la realtà nella quale s’imbattè lo spiazzò: c’era qualcosa di strano che all’inizio non gli fu completamente chiaro. Seguì la sua sensazione di disagio e lentamente comprese il vuoto nel quale si trovava; anzi più che un vuoto era una grande, inaspettata assenza: la casa era deserta, nessun familiare, nessun vicino, nessun amico ad accogliere i soccorritori. Andrea sapeva per esperienza che la chiamata ai cari spesso precede quella al 118 eppure quell’uomo era solo in un’assordante silenzio relazionale. Ma non solo a causa del lockdown: quell’uomo viveva in solitudine già da tempo, da anni, e il covid-19 non aveva segnato alcuna differenza nel suo vuoto esistenziale. Nessuna differenza, nessun mutamento: per lui la mancanza del contatto relazionale era divenuta una necessaria abitudine.

Andrea ne rimase colpito. E nel suo cuore cominciò ad emergere una premura per quel paziente che scardinava il sistema “di protezione” che aveva imparato ad usare nel suo lavoro, nonostante i suoi soli venti anni. Normalmente quando entra nel vivo del soccorso cerca di tenere tutto «a distanza di sicurezza dalla sua anima» perché purtroppo, l’emergenza, per quanto possa regalare soddisfazioni immense regala anche delle sorprese atroci. Perché questa volta “la procedura” non funzionava? Perché non era riuscito a mettere a tacere i sussulti del suo giovane cuore?

«Vi chiedo solo di far battere il vostro cuore, nient’altro, e di guardare bene».

Giunti in ospedale sapeva di dover espletare le solite pratiche della scheda di soccorso e di dover consegnare la persona alle cure dei medici. Eppure… la faccia rugosa e la voce spezzata con cui quell’anziano risponde di non poter lasciare alcun recapito di riferimento poiché non ha nessuno, ma proprio nessuno! da indicare, creano un varco nell’anima del giovane soccorritore a cui non può e non vuole resistere.

Andrea sente il cuore battere più forte stavolta e vi entra dentro, e poi guarda e (si) ascolta.

Capisce di non poter più ignorare «quelle zone che nasconde più dell’intimità del suo corpo»: esse sono venute alla luce e gli raccontano della paura che anche lui ha di rimanere solo. Guarda il suo paziente, il vuoto relazionale ingloba anche lui, gli fa ripensare ai giorni più bui del lockdown e con l’immaginazione moltiplica quei giorni per ottanta anni, gli stessi della persona che sta soccorrendo. Troppi. Lo trova inaccettabile: vivere per anni come un fantasma, senza essere conosciuti e “riconosciuti” da nessuno. Troppo.

«Ecco cosa vorrei: un mondo che viva un nuovo abbraccio tra i giovani e gli anziani».

Sa che il suo dovere è consegnare la cartella e tornare in ambulanza ma non riesce a lasciare andare quel signore anziano, che potrebbe essere suo nonno. Finge problematiche burocratiche e lo tiene vicino a sé. E così prolunga il contatto fisico, poggia la sua mano su quella dell’uomo e gli parla ancora e ancora: quella giovane mano, che copre come in un forte abbraccio la mano nodosa e ossuta di quell’anziano. In quella mano lo riconosce anche se sa di non poter fare di più.

«Chiedo uno sguardo alle stelle, quel sano spirito di utopia che porta a raccogliere le energie per un mondo migliore».

Andrea quella sera inchioda il suo sguardo alle stelle e a quel nonno. Nella notte, nella sua postazione vicino San Pietro, continua a tornare a quell’incontro che gli ha dato un nuovo accesso alla sua anima per trovare il coraggio di sperare nella possibilità «di un umano più umano» anche quando questo significa farsi segnare indelebilmente dalla ferita dell’altro. Da quella notte i suoi soccorsi sono cambiati radicalmente…

«Non può esserci l’uno senza l’altro, perché l’uno è per l’altro».

di Raffaella Esposito