Storia di al Ghazali, il più grande monastero cristiano della Nubia

Passato che ritorna

Resti del monastero di al Ghazali
27 agosto 2020

Il passato illumina il presente. Per tutto il tragitto, il silenzio e la luce ci fanno compagnia. Intorno soltanto l’azzurro del cielo e l’ocra della sabbia. Lasciamo Khartoum la mattina molto presto in direzione nord, verso Wadi Abu Dom, attraversando il deserto di Bayuda: ci vogliono quasi sei ore di macchina per percorrere circa 450 chilometri e raggiungere il monastero di al Ghazali, uno dei più grandi finora scoperti in Sudan. Durante il tragitto il pensiero corre a padre Giuseppe Vantini. Succede ogni volta che ritorno nella terra dei faraoni neri. Qui nell’hotel «Acropole», dove scendono sempre tutti gli archeologi, il padre comboniano era venuto a trovarci la prima volta — ormai venti anni fa — per incontrare la sua amica e collega, la professoressa Luisa Bongrani, la prima docente ad avere in Europa la cattedra di Antichità nubiane all’università La Sapienza di Roma. Un grande affetto e una grande stima li univa. E il tempo, sempre poco, passato insieme trascorreva nel racconto delle scoperte fatte, degli studi in corso e del paese dove ha vissuto per cinquantotto anni, fino al 2000. A padre Vantini siamo tutti debitori: a lui si devono importanti studi sulla storia della Nubia cristiana (la Nubia corrisponde oggi a una parte dell’Egitto meridionale e al Sudan settentrionale). Con lui ci fu un impulso importante nello studio del ruolo delle istituzioni religiose in quelle che furono le periferie del mondo bizantino. Senza dimenticare — e nemmeno padre Vantini lo fece — chi prima di lui aveva scritto sulla Nubia cristiana: Ugo Monneret de Villard.

Il sito archeologico di Ghazali, ribattezzato dalla comunità locale in Deir al-Ghazali è stato scavato di recente dalla missione archeologica polacca diretta da Artur Obłuski e si è rivelato un complesso monastico paragonabile, per dimensioni, al monastero di Santa Caterina nel Sinai. Datato alla prima metà del VII secolo, il monastero cristiano dell’oasi di al Ghazali è stato scoperto nel 1821 e fu in parte indagato da Peter Shinnie nel 1953. In questa struttura doveva vivere un folto gruppo di monaci e pellegrini, come dimostra anche la recente scoperta, eccezionale, di un importante sistema sanitario. Nel lato sud del monastero, infatti, gli archeologi hanno individuato una fila di quindici bagni, il gruppo più grande di tutta la Nubia medievale, composti da fori nel terreno e contenitori ceramici. La stanza era nascosta da mura perimetrali per assicurare un minimo di discrezione. La scoperta di queste sale sanitarie, mai fatta prima in Nubia, suggerisce dunque la presenza di una grande comunità monastica e svela il ruolo del monastero come centro di pellegrinaggio: la valle dove si trova era un tempo una frequentata via commerciale dell’Africa nordorientale.

Il complesso monastico venuto alla luce era completato da refettori, altre stanze e da due chiese: una più grande, costruita con blocchi di arenaria a nord (la maggiore del Sudan in età bizantina), e una più piccola in semplici mattoni di fango a sud. Qui, dopo la rimozione di uno strato di terra sulle pareti, è riapparso il fondo bianco in gesso con pitture che rappresentano santi, immagini del Cristo e i quattro arcangeli (Gabriele, Michele, Raffaele e Uriele). Inoltre, sui muri ci sono numerosi graffiti con preghiere e richieste di grazia e di aiuto in ogni attività quotidiana. Come in molti altri luoghi della Nubia, il culto degli angeli era estremamente popolare anche ad al Ghazali. Gli archeologi hanno scoperto una ciotola in ceramica che reca inciso il nome di un sacerdote: Angeloforos, letteralmente “colui che porta la notizia”, che sottolinea ulteriormente la venerazione per gli angeli.

Nei primi tre o quattro secoli dell’era cristiana la Nubia ebbe soltanto qualche contatto sporadico con il cristianesimo e la conversione ufficiale avviene intorno al v secolo quando, sulle ceneri dell’impero meroita che aveva dominato la scena per molti secoli, nacquero tre regni cristiani: Nobadia, con capitale Faras, Makuria con capitale Dongola, e Alodia con capitale Soba. In quel tempo sia da Alessandria (di tradizione copta, precalcedoniana) come da Bisanzio (di tradizione greca, post-calcedoniana) partirono missionari per l’evangelizzazione ed entrambe le confessioni furono presenti per tutto il millennio di storia cristiana, talvolta in competizione tra di loro.

Specialmente sui primi due regni, che nel volgere di pochi secoli si fusero in uno, le informazioni sono abbondanti: le fonti riportano nomi di vescovi e re e documentano diverse vicende belliche. Ad arricchire le testimonianze degli storici si sono aggiunti gli importanti ritrovamenti sia a Faras che a Dongola dove sono riemerse soprattutto chiese in cui sono conservati  bellissimi affreschi e altri reperti, gran parte dei quali si trovano oggi al Museo nazionale di Khartoum. Lo storico della conversione della Nubia è Giovanni d’Efeso, vescovo monofisita, siriano d’origine, vissuto alla corte di Costantinopoli dove godette il favore di Giustiniano ed ebbe incarichi importanti. Egli scrisse una Storia ecclesiastica in siriaco della quale ci è pervenuta autentica soltanto la terza parte, ma è proprio in questa che è narrata la conversione della Nubia al cristianesimo. Anche se Giovanni d’Efeso non dice nulla sull’evangelizzazione del regno di Makuria, dove è stato ritrovato il monastero di al Ghazali, sembra che gli evangelizzatori di quel regno furono dei missionari melkiti. Le testimonianze al riguardo sono poche ma non lasciano dubbi. Cosma Indicopleuste nel 547-549 scrive che «in Etiopia […] tra i popoli dell’Arabia Felice […] tra i Nobatae [...] in Egitto, Libia […] e in Mauritania fino a Gadeira, dappertutto si trovano chiese e cristiani con vescovi e martiri, monaci ed eremiti, dove il vangelo di Cristo è annunciato». Giovanni di Biclar, monaco ispano visigoto che si trovava a Costantinopoli nel periodo 575-576, registra nella sua Chronica alcuni avvenimenti dei quali fu testimone oculare: «Nel terzo anno dell’imperatore Giustino (568) […] il popolo dei Macurritae ricevette la fede di Cristo». E sotto l’anno 573 lo stesso cronista scrive: «Nel settimo anno dell’imperatore Giustino, che corrisponde al quinto anno del re Leovigildo, i delegati del popolo dei Maccurritae arrivarono a Costantinopoli portando in dono all’imperatore zanne di elefante e una giraffa, e dichiararono la loro alleanza con i romani». Un altro autore di quel tempo registra sotto l’anno 567: «Armeni Iberi e Maccurritae ricevono la fede di Cristo».

Abbiamo poi le testimonianze di Eutichio, patriarca melchita di Alessandria (930-939), che scrive: «Quando i nubiani avevano bisogno di vescovi il patriarca giacobita ordinava vescovi per loro e, di conseguenza, essi diventarono Giacobiti». La testimonianza di Eutichio parla di Nubia, senza specificare se siano Nabadae o Maccuritae e nemmeno fa riferimento al periodo dell’evangelizzazione. Però appare chiaro che una presenza cattolica (melchita) in Nubia ci fu, e questa — si suppone — si sviluppò in Makuria. È probabile che la presenza cattolica si sia stabilita all’inizio anche in qualche luogo del regno di Nobadia.

Una caratteristica della Nubia cristiana fu l’ordinazione sacerdotale del re. Così scrive il cronista egiziano Abu Saleh, nel XII secolo: «Tutti i re di Nubia sono sacerdoti e prendono parte alla celebrazione della liturgia nel Sancta Sanctorum». Ma oltre alla partecipazione attiva del re-sacerdote nella celebrazione della liturgia, non vi è alcuna traccia che indichi che egli abbia fatto uso di poteri sacerdotali. Dalla storia di Giovanni d’Efeso sappiamo che Longino fu il primo vescovo nella Nobadia (569-575). Ed è probabile che la sua residenza fosse nella città del re, a Faras, nella cui cattedrale un’iscrizione ha conservato i nomi di altri ventisette presuli in ordine cronologico. Accanto al nome, eccettuati i primi quattro, sono aggiunti in colonna altri dati biografici: data dell’intronizzazione, durata dell’episcopato, data di morte e qualche altra osservazione. Tutte queste informazioni, integrate da altre contenute nella cattedrale, sono preziosissime per la storia della Nubia cristiana. La lista dei vescovi di Faras è un documento tra i più importanti, se non il più importante, per la storia di questa sede vescovile. Tra le istituzioni ecclesiastiche create da Longino compaiono anche i monasteri. Nelle iscrizioni si incontrano nomi di vescovi precedute dal titolo “abba” il che significa che furono anche abati. L’esistenza di monasteri e di monaci nubiani è documentata abbondantemente dall’VIII secolo in poi. Monneret menziona i resti di almeno una ventina di monasteri tra Nobadia e Makuria. Nel 970 il viaggiatore egiziano Ibn Selim al-Aswani raggiunge Soba e, oltre a riferire che la sua ricchezza era maggiore di quella del regno di Makuria, parla anche dell’esistenza di “grandi monasteri”.

Come nell’alto Egitto così in Nobadia i primi cristiani utilizzarono per il loro culto gli antichi templi pagani ormai in abbandono. Vi apportarono però alcune modifiche richieste dalla liturgia orientale. In Nobadia, una ventina di ex-templi furono trasformati in chiese. In Makuria e Alodia soltanto un tempio a Gebel Barkal e uno a Meroe pare siano stati riutilizzati in epoca cristiana. Furono costruite, sin dagli inizi, anche chiese in muratura ex novo con la cerimonia inaugurale dell’erezione della Croce eseguita dal vescovo che piantava una croce di legno su un’apposita base fuori dalla chiesa. Per quanto riguarda la pianta si copiavano modelli dei paesi del Mediterraneo, cioè la pianta basilicale a tre navate. Anche Dongola aveva parecchie chiese. Gli scavi hanno riportato alla luce la cosiddetta “chiesa delle colonne” (VII-VIII secolo) costruita sui resti di una chiesa precedente che risale a un periodo compreso tra il 550 e il 600 e su quelli di una chiesa cruciforme, che a sua volta fu costruita sul sito di una chiesa ancora più antica, ed altre ancora. Dalle numerose raffigurazioni di angeli sembra potersi dedurre che il loro culto fosse molto popolare. Ciò non desta meraviglia, se si ricorda che lo stesso si osserva in Egitto e in Etiopia. Michele è raffigurato di solito mentre tiene in mano una patena, ma vi è anche un Michele con il volto corrucciato nell’atto di sguainare la spada. Poiché le chiese con pitture sono pochissime, non si possono fare generalizzazioni intorno al culto di questo o quel santo. Nel battistero viene ritratto il Battista; a Sonqi, il Battista e santo Stefano. Si trovano pure santi cavalieri, ritratti a cavallo nell’atto di trafiggere un uomo. Degli anacoreti si è trovato il ritratto di Apa Aaron, Apa Anamone e Onufrios, tutti egiziani. Gli apostoli sono generalmente accanto alla Vergine nell’abside, sei da una parte e sei dall’altra. San Pietro figura in più di un ritratto nell’atto di proteggere qualche personaggio: notiamo, in particolare, anche san Pietro che protegge il vescovo nubiano Petros (972-999). I vescovi sono ritratti nei loro abiti pontificali. Dalle pitture appare chiaro che vi furono vescovi di origine straniera, “bianchi”, e altri nubiani color bruno carico, quasi nero.

La presenza di vestigia cristiane nei deserti a oriente e ad occidente della Nubia niliaca dimostra come gli influssi cristiani da qui si infiltrarono, lungo le vie carovaniere, fino a luoghi molto distanti dal Nilo. Nomi cristiani, o comunque iscrizioni in greco e in copto, sono stati trovati nei deserti a oriente e ad occidente della valle del Nilo. Nell’oasi di Selima vi sono antiche rovine, forse monasteri, e sui muri si trovano parecchie iscrizioni in greco e in copto. Così pure a Gebel Audùn — circa 80 chilometri a sud-ovest di Korti nel deserto di Bayuda — fu letta su una roccia l’iscrizione Agios Menas (San Mena). A Goz Regeb, sul fiume Atbara, Monneret de Villard vide molti tumuli antichi, vi trovò mattoni decorati con «disegni geometrici, pesci (?), croci su un globo o entro un circolo». Un mattone, che il Monneret prese e portò al museo di Khartoum, recava l’iscrizione Petros, in caratteri greci. Anche a Kassala gli scavi hanno riportato alla luce ceramica cristiana e qui il cristianesimo è probabile che sia arrivato dall’altopiano etiopico. L’islam ha poi sepolto e obliterato le memorie di quest’epoca, ma la luce del passato riemerge sempre.

di Rossella Fabiani